Come tutte le mattina faccio colazione al bar sotto casa e passo qualche minuto a leggere i giornali. La domenica leggo sempre l’inserto di un quotidiano cartaceo con le sue proposte editoriali per poi passare alla letture delle spesso interessanti recensioni su opere letterarie pubblicate in Italia nell’ultimo periodo. Uno degli articoli di stamattina (domenica 3 febbraio 2019) è dedicato al primo romanzo di Francesca Mannocchi, che la stessa presenta con una breve intervista, dopo che venerdì 1° febbraio 2019 su un canale Tv nazionale, ospite in seconda serata di una trasmissione di attualità fatta con ironia e intelligenza, aveva avuto occasione di leggere alcuni brani e di presentare il suo libro.
La Mannocchi, con la produzione di FremantleMedia Italia con Rai Cinema, in collaborazione con Bayerischer Rundfunk con Arte, in coproduzione con Wildside e Cala Film Filmproduktion, e con la co-regia di Alessio Romenzi, ha presentato nello scorso Festiva di Venezia il documentario “ISIS, TOMORROW. The lost souls of Mosul”, che ha avuto un interessante successo, uscito nelle sale cinematografiche italiane il 30 agosto 2018.
Ebbene, leggo l’intervista di questa mattina, e la associo a quello che avevo già ascoltato nella scorsa puntata di Propaganda Live dove la stessa Mannocchi aveva raccontato ai telespettatori del suo libro e della sua esperienza di giornalista e documentarista nei paesi del Medio Oriente.
Non posso che constatare come la deriva di una parte della cultura occidentale buonista ad ogni costo stia prendendo sempre più corpo in Italia. Il nuovo contributo letterario della Mannocchi si muove proprio in questa direzione. Un romanzo molto ben sponsorizzato dalla cultura dell’élite italiana, la stessa di cui traccia un intelligente profilo Alessandro Baricco con il suo ultimo saggio “The Game” edito da Einaudi, che ancora domina nel nostro Paese, e che molti definiscono, a torto o a ragione, radical chic. Il romanzo di Francesca Mannocchi, “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”, edito da Einaudi, narra di “trafficanti di africani” (così li definisce nell’intervista la Mannocchi) dei quali giustifica, velatamente ma a spada tratta, le ragioni morali ed etiche insieme alle motivazioni ideologiche ed economiche.
Dice a tal proposito la Mannocchi di aver ben compreso le loro ragioni: «… è stato quando ho incontrato Ibrahim, e lui si è presentato come un “trafficante a tempo”, uno che voleva solo comprarsi una casa a Istanbul prima di smettere, che mi sono detta che dovevo capire di più (…) Khaled agisce dopo aver vissuto un’infanzia segnata dalla dittatura, e poi aver combattuto in una rivoluzione scivolata in un caos senza ritorno. È un inquadramento necessario: credo di essere riuscita a dire più cose della Libia con questo libro che nelle decine di articoli che ho scritto».
Volendo sintetizzare “semplicisticamente” questa bizzarra e originale tesi psicosociale della Mannocchi, che di fatto giustifica moralmente ed eticamente i “trafficanti di africani” (rimanendo sempre nella sua definizione), è come voler giustificare un pedofilo che ha commesso decine di reati sessuali a danno di bambini indifesi, per il solo fatto di essere stato a sua volta abusato quand’era lui stesso un bambino.
Ogni altro commento sarebbe assolutamente sterile e inutile su quest’opera letteraria. Una narrazione che è come un pot-pourri di torti e di ragioni, dove non si capisce quali siano i torti e quali le ragioni, che ha un unico obiettivo, il tentativo di sdoganare quello che la cultura cristiana occidentale non potrebbe e non dovrebbe mai accettare: lo sfruttamento di altri uomini per fini personali, per fini economici!
Buona lettura a tutti voi.