Si sa, secondo stereotipo i siciliani sono il popolo “nato stanco” per antonomasia. Da sempre annoiati e lascivi più di altri ci lasciamo trasportare dal marasma del vivere comune affrontando come meglio possiamo la giornata, facendoci cullare dalla noia e dall’essere quasi “scocciati” dalle avversità della vita. Sono passati ormai dieci anni da quando l’uscita de “La grande bellezza”, sconvolse il panorama cinematografico, non solo italiano ma mondiale, divenendo uno dei film più celebri e celebrati della nostra penisola. L’anno successivo alla sua uscita arrivò a vincere l’oscar come miglior film straniero consegnando il nome di Paolo Sorrentino nella storia del cinema tutto. Proprio sull’onda di quella vincita da oltre oceano il film ebbe una nuova vita in sala, tornando a fare botteghino anche in Sicilia. Tutti volevano vedere quel film che per la prima volta dopo molti anni aveva fatto rinnamorare gli americani del nostro cinema. Ma cosa raccontava quel film? Cosa si celava dietro la storia di Jep Gambardella, interpretato dal sempre grande Toni Servillo?
La grande bellezza è per l’appunto un film sulla noia e l’incomunicabilità. Il personaggio decadente di Jep, navigato giornalista di costume e critico teatrale, non può far altro che ricordarci il personaggio di Marcello Rubini de “La dolce vita”, altro celebre film italiano del 1960, diretto dall’immortale Federico Fellini, maestro indiscusso di Sorrentino, a cui sempre il regista napoletano ha cercato di avvicinarsi.
Sia Jep che Marcello, entrambi giornalisti romani, entrambi annoiati e vuoti, cercano nei rispettivi film di sfuggire da quel sentimento di oppressione e soffocante silenzio dati dalla noia, finendo però ingabbiati da quella prigione romana fatta di feste mondane, donne, sigarette e fiumi di alcol.
Perché questi film ci colpiscono tanto?
I protagonisti de “La grande bellezza” e “La dolce vita“, pur di sfuggire da quel sentimento così travolgente e opprimente sono disposti ad abbandonarsi totalmente a quella vacua mondanità che li illude, in mezzo a tutte quelle feste, tutte quelle donne, di non essere mai soli. Ma è davvero così? Quelle folle attorno a loro, quegli interminabili party, altro non fanno che amplificare quel vuoto esistenziale che attanaglia sia Jep che Marcello, incapaci e terrorizzati all’idea di rimanere soli.
La noia è davvero un male da sconfiggere?
Ora come allora, l’uomo moderno tenta si sfuggire alla noia, abbracciando quanti più stimoli possibili attorno a sé. Incapaci di rimanere soli abbiamo deciso di sacrificare il nostro privato rendendolo pubblico. Oggi attraverso i social, scegliamo di immergerci in nuovi contesti di socialità, forse anche più illusori e futili di quelle eccentriche feste de “La grande bellezza”.
Ma perché abbiamo così paura di rimanere soli? Per Leopardi la “la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani”. Un’emozione talmente forte da permetterci di scavare dentro noi stessi, e renderci capaci di immaginare anche un “infinito” fuori la nostra finestra. In una società odierna così frenetica e iper-produttiva, un sentimento come la noia non sembra più trovare posto.
Incapaci di leggere un libro, incapaci di sederci sulla poltroncina di un cinema per guardare un film, senza alcun contatto con il mondo esterno, senza notifiche assordanti e senza social, abbiamo totalmente perso il contatto con noi stessi e paradossalmente anche con l’altro. Quella incomunicabilità che abbraccia entrambi i personaggi e rende Marcello, sul finale de “La dolce vita”, incapace di riconoscere chi ha di fronte, è la stessa che viviamo oggi. Siamo diventati incapaci di vedere davvero l’altro, poiché non lo riconosciamo più, o forse non lo abbiamo mai conosciuto per davvero. Le maschere social che ci siamo costruiti, con i nostri account, i nostri alter-ego, hanno reso impossibile distinguere davvero quella miriade di interlocutori con cui abbiamo a che fare ogni giorno, ma che senza quel tipo di maschera ci sembrano quasi irriconoscibili e lontani dalla realtà che ci siamo costruiti.
La grande bellezza oggi
Dieci anni fa Sorrentino riprese quell’immaginario felliniano e lo modernizzò, facendoci perdere, ancora una volta, dentro quel triste turbinio di noia e vacuità. Se avesse girato il film oggi probabilmente non avrebbe aggiunto nulla di più, forse al massimo qualche telefono, specchio di una società vuota e ricca di tutti quegli idoli immaginari che ci siamo creati.