Sul Risorgimento italiano e sul concetto di nazione italiana si sono sviluppate nell’opinione pubblica del nostro Paese, soprattutto negli ultimi decenni, delle posizioni piuttosto fuorvianti. Posizioni che non tengono conto, per esempio, del discorso retorico risorgimentale e dello sviluppo dell’idea di nazione.
Infatti, da una parte, specialmente tra i “neoborbonici”, c’è la tendenza ad esaltare, mitizzare l’età preunitaria del Regno delle Due Sicilie, dipingendola come una sorta di età dell’oro e di Paradiso Terrestre, una terra ricchissima dove tutto era perfetto e funzionante. Dall’altro lato, vi sono i sostenitori di Casa Savoia e del Settentrione, i quali ritengono che il Mezzogiorno prima dell’Unità nazionale fosse una terra poverissima e disagiata, sfruttata e maltrattata da un regime dispotico, quello borbonico. In tale distorta visione, lo sbarco di Giuseppe Garibaldi a Marsala sarebbe l’inizio di un’operazione di “liberazione” delle popolazioni meridionali dal giogo dello straniero. Ma d’altra parte, è errata anche la lettura che considererebbe Garibaldi come un lestofante, un doppiogiochista al servizio dei Savoia, condannando il Meridione a ogni male. Sono posizioni ideologizzate, figlie di pregiudizi e luoghi comuni.
Per comprendere meglio il Risorgimento bisogna tenere in considerazione alcuni fenomeni. Il moto risorgimentale venne animato da temi, simboli e immagini che furono elaborati da un ristretto gruppo di intellettuali, influenzati ed eccitati dalle suggestioni della Rivoluzione francese. Per cui, si può parlare di una vera e propria retorica politica del Risorgimento, dotata di un’incredibile efficacia comunicativa, tale da spingere tanti uomini a farsi convinti patrioti. In tale dimensione va letta l’impresa di Garibaldi e dei “Mille”, convinti patrioti, nutriti di retorica politica risorgimentale, che al di là d’interessi personali che pure ci furono, credevano davvero nell’Italia unita e nella nazione italiana.
Ma la nazione italiana fu una costruzione retorica, dotata di una forza comunicativa incredibile, a tal punto da far credere a molti dell’esistenza di una comunità con storia, valori, usi e costumi comuni ma che nella realtà non esisteva affatto. E la politica estera sabauda seppe inserirsi abilmente e furbescamente nel discorso politico risorgimentale. I piemontesi godevano dei mezzi militari e delle relazioni internazionali necessarie, soprattutto con gli inglesi, per portare a compimento un’operazione di conquista che avrebbe mutato, in certa misura, gli assetti geopolitici europei.
Ma che cosa voleva dire “nazione” in quest’epoca? Il termine in realtà aveva tre significati principali. Quello più antico voleva dire “estrazione familiare o sociale”. In seguito, assunse anche il significato di collettività dotata di usi e costumi comuni. Infine, dagli inizi del Settecento, il termine nazione si arricchì di un ulteriore significato, indicando una comunità culturale italiana, dotata di lingua e letteratura comune. A partire dagli anni ’90 del settecento, l’influenza della Rivoluzione francese e del suo nuovo vocabolario politico arrivarono anche in Italia. Per cui il termine nazione, non perdendo i significati precedenti, assunse un’ulteriore accezione, indicando il soggetto originario, la comunità fondamentale da cui deriva la legittimità delle istituzioni. È bene ricordare che pure il termine “patria” andò incontro a dei mutamenti: infatti, a differenza dei decenni precedenti, esso non si riferiva più a un qualunque sistema istituzionale regolato da giuste leggi, ma per “patria” s’intendeva quella democratica e repubblicana.
Alla fine del XVIII secolo gli Stati italiani erano 12, spesso molto diversi tra loro per storia, cultura e istituzioni. Guardando all’organizzazione istituzionale le differenze risultano evidenti: per esempio, dopo il 1760, in alcuni comuni rurali della Lombardia la popolazione poteva riunirsi nel “convocato” per poter prendere decisioni sull’amministrazione della propria comunità. Invece, nel Regno di Napoli, circa il 70% della popolazione era inquadrata in istituzioni legate al feudo, dove a padroneggiare erano i signori delle terre.
Anche dal punto di vista commerciale gli Stati preunitari avevano poco in comune. Nel Mezzogiorno molti prodotti agricoli e tessili venivano consumati e utilizzati dalle stesse famiglie contadine; altri prodotti, come terraglie, saponi, pesce, salumi e legumi, venivano venduti nei mercati settimanali o nelle grandi fiere periodiche. Ma i maggiori guadagni dell’economia del Sud provenivano dai commerci a largo raggio, di prodotti come il vino, l’olio e il grano, lo zolfo e gli agrumi, che venivano esportati in gran quantità. Questo tipo di commercio a largo raggio era favorito dal mare e dalla presenza di porti importanti dotati di tutte le strutture necessarie per questo tipo di traffici commerciali: pensiamo al porto di Napoli ma anche di Palermo, Messina e Bari. I maggiori Paesi importatori dei prodotti meridionali erano la Francia, l’Olanda e l’Inghilterra. Trieste costituiva, invece, uno sbocco commerciale importantissimo perché permetteva un collegamento col mercato Mitteleuropeo. Addirittura alcuni prodotti, come gli agrumi, iniziarono ad essere esportati pure negli Usa e in Russia. Quindi, l’economia meridionale fu in grado d’inserirsi nelle economie di Paesi ricchi, in via di industrializzazione, dove i redditi crescevano ed era quindi possibile vendere i costosi prodotti del Sud. È chiaro che l’economia del Mezzogiorno era parte integrante di reti commerciali che la connettevano alle forti economie dei Paesi del Nord e del Centro Europa.
Invece, gli scambi commerciali con gli altri Stati italiani erano singhiozzanti: ad esempio, nel 1855 le esportazioni del Regno delle Due Sicilie verso il resto d’Italia erano pari all’11,8% del totale. E al contrario le relazioni erano ancora più fragili. La disarticolazione commerciale è un dato incontrovertibile. Le due economie, quella meridionale e centro-settentrionale, erano poco funzionali l’una all’altra, per cui, la creazione di circuiti commerciali interni più intensi non era conveniente o non era necessario.
Anche dal punto di vista culturale, le relazioni erano deboli: la lingua e la letteratura, che molti ritenevano essere il collante delle popolazioni della Penisola, in realtà, coinvolgevano pochissimi. Infatti, gli italofoni, coloro che usavano correttamente l’italiano come prima lingua, nel 1861 erano appena una manciata e, probabilmente, vi era una fetta di popolazione più ampia, in grado di parlare italiano in quanto capaci di leggerlo. Ma dobbiamo pure considerare che all’epoca gli alfabeti erano solo il 22% della popolazione totale e tra quest’ultimi la percentuale di coloro che potevano apprezzare le opere di Dante, Boccaccio o Machiavelli era molto esigua. A dominare erano quindi i dialetti o le lingue straniere, come il francese in Piemonte. Ed è impressionante, da questo punto di vista, leggere lettere di Vittorio Emanuele II o di Cavour scritte in francese e il cui contenuto magari era incentrato sulla costruzione di uno Stato italiano. Ugo Foscolo, all’inizio dell’Ottocento, scriveva che “un Bolognese e un Milanese non si intenderebbero fra loro, se non dopo parecchi giorni di mutuo insegnamento”.
In sostanza, la nazione italiana fu un’invenzione, una costruzione retorica ad opera di alcuni intellettuali, una retorica che riuscì a scaldare i cuori di tanti e molti di essi divennero dei convinti e ferventi patrioti, come Garibaldi. Una retorica politica che venne anche appoggiata e alimentata dai Savoia poiché era funzionale ai propri progetti di conquista territoriale. Gli stati preunitari erano delle realtà completamente estranee tra loro. Diversi erano gli assetti costituzionali, istituzionali e amministrativi. Diverse erano leggi, usi e costumi. Diverse le economie con una disarticolazione commerciale molto marcata. E anche a livello linguistico le diversità erano enormi. Tutte estraneità che nel corso dei secoli si erano ulteriormente accentuate determinando sviluppi storici differenti. Insomma, la retorica politica risorgimentale legata all’idea di nazione e di patria fu in grado, insieme ai diversi interessi geopolitici, economici e personali che erano in gioco, di generare un moto il cui esito finale fu l’Unità di una nazione che esisteva soltanto nella mente e nel cuore di alcuni uomini ma che non esisteva affatto nella realtà.