Sul traghetto di linea Sansovino che lascia Lampedusa per fare rotta su Porto Empedocle, ci sono i vivi e i morti: 97 migranti che in qualche modo erano riusciti a raggiungere l’isola e che riprendono il cammino verso un’altra sponda d’Europa e sette bare che concluderanno il loro viaggio nel cimitero di Palma di Montechiaro, dove le giovani donne vittime del naufragio di ieri riposeranno per sempre. Dei dispersi, dieci secondo il racconto dei 46 superstiti dell’ultima tragedia, non c’è traccia nelle acque davanti all’isola né in un raggio più ampio, aree setacciate anche oggi dalle motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza e da mezzi aerei.
Non sembra ci siano ormai speranze di trovare altri superstiti. Il barcone colato a picco tra Lampedusa e lo scoglio di Lampione, che ha portato alla morte donne e bambini, è del tuto simile simile a quelli che continuano ad arrivare: nelle ultime ore sono tre, con un carico complessivo di 310 persone giunte dal Bangladesh, da paesi a sud del Sahara e riuniti nell’hotspot che ne contiene, finora, 704 a fronte di una capienza che è di un terzo. Il centro di contrada Imbriacola, tra incendi, parziali restauri, altri roghi e ipotesi di chiusura, è anch’esso un’emergenza nell’emergenza. L’ennesima tragedia, nell’estate che segue la monastica vita del periodo pandemico, mal si combina con i preparativi di un’estate liberatoria che dovrebbe segnare l’agognato ritorno alla normalità.
Sul molo Favaloro, dove subito dopo lo sbarco sono stati radunati i superstiti del naufragio, agli operatori di Msf, da poco tornati sul campo per assistere i migranti, una quarantenne della Costa d’Avorio, sotto shock come gli altri sopravvissuti, racconta gli ultimi istanti di vita delle due sorelle, morte nel naufragio di ieri: “Le ho viste annaspare prima di scomparire, senza riuscire a fare nulla per salvarle”. Ce l’ha fatta un connazionale della donna, un bimbo di 5 anni, che non riesce a staccare la sua mano da quella dei soccorritori, ai quali promette che un giorno sarà lui a prendersi cura di loro. Uno dei componenti del team di Msf ricostruisce le testimonianze raccolte al momento dello sbarco: “C’era una ragazza sopravvissuta al naufragio che non parlava e teneva gli occhi chiusi, quasi volesse rifiutare il mondo attorno a sé. Solo quando le ho detto che eravamo lì per lei, che non era sola e che era in Italia, ha aperto gli occhi, si è illuminata per un momento ed è scoppiata a piangere. Ha forse realizzato che si trovava in un posto sicuro”. Stella Egidi, coordinatrice medica di Msf, sa che “non basta l’ennesima risposta emergenziale: serve un sistema che assicuri alle persone canali legali e sicuri e un sistema di soccorso europeo per evitare inaccettabili morti e sofferenze”
Parole poco comprensibili per chi nel Canale di Sicilia decide di mitragliare e poi tenta di speronare un barcone con una quarantina di migranti a bordo, come si evince da una ripresa video di un mezzo aereo di SeaWatch, che oggi ha diffuso un frammento di 53 secondi sul proprio account twitter. Il filmato inquadra una motovedetta libica e alle immagini si sovrappongono i commenti degli operatori sul velivolo e le comunicazioni che questi fanno via radio con la guardia costiera di Tripoli, nel tentativo di fermare quell’azione criminale. Sea watch identifica anche il mezzo navale e afferma che si tratta della motovedetta “Ras Jadir” che è stata donata dall’Italia alla Libia nel maggio 2017.