Le periferie di Palermo, dallo Sperone allo Zen, sono oggi lo specchio più nitido di una frattura che attraversa il tessuto sociale della città. Strade rotte, palazzi popolari abbandonati, scuole che arrancano: in questi scenari cresce una generazione di giovani spesso priva di riferimenti, sospesa tra modelli violenti o superficiali e un senso di appartenenza che la comunità non riesce più a offrire. La delinquenza minorile che emerge da questi contesti non è solo un fatto di cronaca nera.
È il segnale di un disagio collettivo, il sintomo di un lungo processo di abbandono economico, educativo e culturale. Lo Stato, negli ultimi decenni, ha arretrato: meno risorse per le scuole, centri culturali chiusi, servizi sociali ridotti all’osso. Nel vuoto lasciato dalle istituzioni si sono inserite le logiche del branco, le derive dei social estremi, le microcriminalità locali. Non si tratta soltanto di povertà materiale. È una povertà educativa che segna in profondità. Famiglie fragili, genitori soli, giovani che non vedono futuro né nel lavoro né nello studio. Così la violenza diventa linguaggio, l’illegalità una forma di identità, la devianza un modo per esistere.
In questo scenario, la scuola rimane spesso l’unico presidio di legalità. Ma è un presidio stremato. Mancano laboratori, psicologi, educatori di supporto. Eppure proprio la scuola potrebbe essere la chiave per invertire la rotta, se tornasse a essere un luogo vivo, aperto, partecipato. Laboratori artistici, sport, teatro, giornalini scolastici, educazione civica reale: strumenti semplici ma potenti, capaci di ridare senso e prospettiva ai ragazzi. Il degrado culturale nasce anche dal degrado urbano. Non si può chiedere a un giovane di rispettare le regole se cresce tra muri scrostati e spazi abbandonati. La bellezza educa: un parco curato, un murales colorato, una biblioteca di quartiere aperta fino a sera valgono più di mille campagne di sensibilizzazione. Serve una rigenerazione partecipata, che coinvolga cittadini, associazioni e amministrazioni. Quartieri che tornano a vivere, spazi pubblici riqualificati, centri culturali autogestiti: dove la comunità si riappropria dei propri luoghi, la criminalità arretra. Ma la cultura, da sola, non basta. Senza lavoro, la speranza resta parola vuota. Molti giovani delle periferie si sentono esclusi, destinati a un futuro già scritto. Servono politiche serie di formazione professionale, percorsi che uniscano scuola e impresa, cantieri-scuola, tirocini veri. Dove si creano opportunità concrete, la delinquenza cala. Perché nessuno sceglie davvero l’illegalità se davanti a sé ha una possibilità credibile di riscatto.
In questo senso, guardo con grande interesse e condivisione al cosiddetto “modello Caivano”: una visione che unisce repressione e rigenerazione, presenza dello Stato e rinascita culturale. È un approccio che non si limita a punire, ma mira a ricostruire. A restituire dignità alle persone e ai luoghi, a riportare lo Stato dentro la vita quotidiana dei quartieri.
Le periferie non sono solo un tema di sicurezza: sono una questione di giustizia sociale. Investire in cultura, scuola e bellezza non è un lusso, ma una necessità strategica. Ogni euro speso per un centro giovanile è un euro risparmiato in tribunali e carceri. Ogni ragazzo strappato all’abbandono scolastico è una vittoria dello Stato, della società e della collettività. Le periferie non sono il problema di Palermo. Possono diventarne la risorsa più grande, se impariamo ad ascoltarle, a crederci davvero. Perché solo quando la città tornerà a includere i suoi margini, la gioventù potrà smettere di sentirsi ai bordi e tornare a essere protagonista del proprio destino.





