Un’operazione della Gdf di Prato, coordinata dalla Dda di Firenze, ha portato all’esecuzione di 12 arresti , sei in carcere e sei ai domiciliari, in un’inchiesta con un totale di sessanta indagati in cui si contestano reati di associazione a delinquere finalizzata a riciclaggio, autoriciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti nonché reati di intestazione fittizia di beni, contraffazione di documenti di identità e sostituzione di persona.
Il sodalizio riciclava proventi degli affari criminali della “famiglia mafiosa di Corso dei Mille” di Palermo, capeggiata da Pietro Tagliavia, condannato con sentenza irrevocabile per associazione mafiosa, figlio di Francesco Tagliavia, a suo tempo condannato all’ergastolo per le stragi di via d’Amelio a Palermo e via de’ Georgofili a Firenze. Ricostruito un flusso illecito di denaro per circa 150 milioni di euro.
Le indagati, secondo quanto accertato dagli inquirenti, si erano messi a completa disposizione di Pietro Tagliavia, nel periodo in cui egli era detenuto nella casa circondariale di Prato, tanto da reperirgli nel 2017 un’abitazione in Campi Bisenzio (Firenze) dove aveva poi scontato gli arresti domiciliari e da fornirgli, clandestinamente, un telefono con il quale mantenere i contatti anche con i propri sodali in Sicilia.
La provenienza dalla Sicilia di parte del denaro riciclato ha trovato conferma anche in molte conversazioni telefoniche intercettate e nei successivi riscontri investigativi.
Inoltre sono stati rilevati movimenti di denaro, evidentemente ‘ripulito‘, a favore del capo-cosca palermitano. Il riciclaggio ha riguardato anche i proventi dei reati di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, commessi sia nell’ambito dei rapporti tra le imprese gestite dall’organizzazione che a favore di aziende ad essa estranee; queste ultime versavano, tramite bonifico, il corrispettivo degli importi falsamente fatturati, che tornavano poi nella loro disponibilità, in contanti, decurtati della percentuale del 10% a titolo di commissione. In virtù di tali operazioni, che gli stessi indagati chiamavano, nelle conversazioni intercettate, ‘fantasmini’ le imprese beneficiarie estranee all’organizzazione.