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Mariano e Santo, 105 e 99 anni: libertà e coraggio dal cuore delle Madonie

domenica 25 Aprile 2021

Castelbuono e Gratteri. In linea d’aria distano appena 10 km ed è da questi due comuni madoniti che un secolo fa inizia questa storia. L’occasione è il 76° anniversario della Festa della Liberazione

Mariano Norata ha 105 anni. E’ nato il 24 novembre del 1916. Lo vedo per la prima volta collegandomi in videochiamata. Vive ancora a Castelbuono e con lui ad aiutarlo con telecamere e pc, c’è Arcangela, una dei suoi quattro figli. Sorride, saluta e non vede l’ora di raccontarmi una parte importante della propria vita che per anni, aveva deciso di tenere solo per sé.

Santo Santino è un po’ più giovane. Di anni ne ha 99 ed è nato a Gratteri il 3 marzo del 1922. Vive a Livorno e questo pomeriggio con lui c’è il figlio Domenico, “Mimmo” come lo chiama lui. Lo rintraccio al telefono e immediatamente, come un fiume in piena, comincia a parlarmi con lucidità e passione.

Mariano e Santo sono nati e cresciuti in due piccoli comuni vicini tra loro anche se, probabilmente non si sono mai incrociati. Hanno caratteri e bagagli di esperienze molto eppure, mi piace pensare che, in un particolare momento della loro storia, le loro scelte di libertà e ribellione, gli abbiano consentito non solo di non incontrarsi ma, soprattutto, di salvarsi reciprocamente la vita.

Nel 1938, Mariano Norata ha 22 anni. Si trova a Perugia, al 51ºReggimento Fanteria. Dopo due anni va in guerra in Francia, di rinforzo agli alpini. Poi, dopo l’armistizio, rientra a Ventimiglia. Torna a Perugia e da lì in Albania, sul fronte greco-albanese per poi arrivare in Montenegro, contro i ribelli di Tito. Nel 1942 prende la quinta elementare e diventa sergente maggiore. Dal 30 luglio all’8 settembre del 1943 è nei Balcani dove viene catturato dai tedeschi e mandato in un campo di lavoro coatto prima in Prussia orientale e poi in Renania fino all’8 maggio del 1945 quando Mariano e i suoi compagni verranno liberati dagli americani. Resteranno fino ad agosto e il perché di questa liberazione parziale, me la spiega il signor Norata, oggi. Gli americani, vedendo le condizioni in cui avevano vissuto per anni quegli uomini, temevano che i loro traumi potessero tradursi in violenza. Insomma, c’era il rischio che, una volta ritornati in libertà troppo presto, gli internati rappresentassero un problema per una società già provata dalla guerra.

Ma facciamo un passo indietro. Gli anni di internamento sono durissimi. Poco cibo, violenze, privazioni. Mariano e altri 50 soldati del suo stesso Reggimento, trascorrono giornate sempre uguali. Raccolgono patate che non mangeranno, sistemano binari che i bombardamenti hanno distrutto. Davanti alla loro baracca, c’è un vagone con alcuni prigionieri polacchi che ogni tanto ricevono pacchi dalla Croce Rossa. Talvolta, gli lasciano i resti (per lo più bucce di patate da arrostire).

Non ci sono festività o compleanni. Solo una volta Mariano, che al campo è cuciniere, riesce a preparare gli gnocchi. Riesce a scrivere solo due cartoline a uno zio e al fratello. Per il resto, a dargli forza sono soltanto il suono della fisarmonica lasciata a un alpino e la fede, con particolare devozione a Santa Rita.

Un giorno, un ufficiale tedesco dice a Mariano che se vuole, può lasciare il campo di lavoro a patto che, torni in Italia per uccidere i partigiani. E’ la seconda volta che l’ufficiale tedesco fa questa proposta a Mariano e ai suoi compagni e per la seconda volta, la risposta, unanime, è NO. Nessuno di loro andrà a sparare a un italiano come loro, nessuno di loro abbandonerà il campo. La reazione tedesca é durissima. Cinque uomini vengono mandati alla Compagnia di disciplina. Tradotto: lavoro ancora più duro, giorno e notte, per 4 settimane. Ne ritornerà soltanto uno. Per chi resta, il destino non è migliore: cibo dimezzato, soprusi continui. Tanta è la disperazione che in un’occasione, i soldati italiani decidono di “scioperare”, di non “lavorare” più. La protesta però finisce quasi subito davanti alla minaccia della fucilazione. Da quel momento in poi, il sentimento più forte è la rassegnazione che tuttavia non lascia spazio a nessun passo indietro rispetto alla decisione di non andare a combattere contro i partigiani.

Torniamo a quell’estate-autunno del 1943. Siamo alla fine di settembre e mentre Mariano si ribella per la prima volta ai tedeschi, in Albania Santo Santino viene a sua volta catturato. Ha 21 anni. Tre anni prima, il 20 giugno del 1940 aveva lasciato Gratteri per arruolarsi in Marina. Saluta 1 fratello e 5 sorelle, una vita semplice. In tasca ha la licenza di quinta elementare. Prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, impara a usare il radio telegrafo, studia l’elettricità. Gli si apre un mondo poi, la guerra. Va a San Bartolomeo, frazione di La Spezia e qui si imbarca prima sull’incrociatore “Trento” poi, su una torpediniera. Dopo tre anni in mare, facendo la spola tra Brindisi, Taranto e Patrasso, viene catturato dai tedeschi a Durazzo, in Albania. Lo portano a Venezia, direzione Germania. Ma è proprio a Venezia che i cittadini gli offrono la possibilità di scappare e lui lo fa senza pensarci due volte. Prende contatti con il Comitato di Liberazione nazionale e diventa partigiano della Brigata G. Matteotti dall’ottobre del ’43 fino alla Liberazione. Santo è un ribelle. Non sopporta le ingiustizie. Litiga con un comandante per i suoi ideali socialisti, finisce a processo e assolto dai partigiani. I suoi compagni con i quali si rifugia nei boschi del Monte Grappa, lo chiamano il “Comandante Ciclone” ma per tutti era “Il Siciliano sul Grappa”. Sulla carta, un marinaio di Gratteri che poco o nulla aveva a che fare con quei boscaioli del Nord. Nella realtà, tutt’altro. A fare da collante, l’idea di lottare per la patria, per la libertà che la guerra aveva ridotto in macerie. Niente di più difficile. Durante un rastrellamento perde un amico, Antonio “Tonino” Boschieri, figlio unico, studente universitario da cui prenderà  il nome del battaglione. Partecipa a sabotaggi, assalti, porta armi e munizioni, viene arrestato, scappa, rischia più volte di morire, di essere impiccato. Ma essere partigiano era troppo importante.

Finita la guerra, si sposa e ha un figlio. Dal 1960 la sua casa è Livorno e nella sua vita ha sempre portato i suoi ideali.  “Siamo stati – mi dice -uomini liberi e antifascisti. Con orgoglio dico che sono un partigiano. “

Ecco, mi piace pensare che il No del signor Norata al soldato tedesco e il Sì del signor Santino al partigiano veneto, siano stati pronunciati non a caso in quell’estate del ’43. Una scelta libera in un tempo di costrizioni, un gesto di coraggio che ha impedito a questi due siciliani delle Madonie, di incontrarsi e di salvarsi la vita. Mi piace pensare che le loro storie raccontate oggi quasi per caso grazie ad Anpi Sicilia e a Giusy Vacca di Anpi Palermo, servano più di tutto a conservare la memoria, a creare legami, a parlare di solidarietà e di unità anche e soprattutto in un momento così difficile come quello della vita in pandemia.

A Mariano e a Santo, dico grazie perché con la loro testimonianza, rendono viva la storia e fanno onore a un popolo che, nonostante la guerra, le restrizioni, la vita in fuga, oggi come allora, hanno scelto e scelgono ancora a 105 e 99 anni, la libertà.

 

 

 

 

 

 

 

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