Ciò che appare, tra luci e ombre, nella caldissima estate del centrosinistra siciliano, è un rebus senza soluzione. Tre candidati, Micari, Navarra, Fava, e il presidente della Regione uscente Crocetta che va avanti nella sua ricandidatura. Alla segreteria regionale del Pd che si riunisce oggi gli argomenti non mancano.
Il rettore di Palermo stamani incontra la stampa, convocata per presentare il suo progetto. Un’idea ‘civica’, come l’ha ribattezzata il mentore Orlando con un nome centrista della Sicilia orientale (La Via?) pronto ad affiancarlo nella lunga e complicata corsa a ostacoli per Palazzo d’Orleans
A sinistra, nella provincia estrema dello zoccolo duro che ha lasciato a Renzi il partito per recuperare voti e identità, in quella parte che non vuole contaminare la possibilità di rilancio di un’alternativa, anche solo in termini di riscontro elettorale con il mescolamento dispersivo, che non crea distinzione e può anche portare alla sconfitta, con il governo che c’è già stato (Alfano è poco più di un pretesto) la regola è questa.
Le pedine utili della scacchiera che puntano a intercettare voti cercano un cambio di linguaggio, non un candidato comune.
La sensazione inconfessabile che: «o si vince e si va governare con un proprio uomo, o è meglio perdere», prende spazio nei discorsi, va oltre misura senza trapelare nell’aspetto pubblico delle dichiarazioni, ma, fatalmente assume una forma delineata ed individuabile.
Perché, in verità, la corsa di novembre, oltre all’abusata metafora della Sicilia “come l’Ohio”, delle presidenziali statunitensi, garantisce un riflesso pratico di visibilità agli operatori della politica, ai partiti, a chi punta a un dialogo sulle nazionali, a chi deve andare in lista, ma anche a chi vuole rimanere nell’agenda politica che rischia di essere sotterrata dall’antipolitica.
La partita delle politiche è talmente sollecitata da variabili ancora in corso di posizionamento che pensare che chi vince a novembre in Sicilia fa il bis il prossimo anno, è più o meno un’affascinante impostura. Ma serve oggi al gioco della parti. Crea pressione. Stordisce in fondo quella minoranza silenziosa e un po’ sconcertata di elettori che ancora si appassiona alla danza dei nomi sotto l’ombrellone.
Non è un caso infatti che un altro dei ritornelli abusati che funzionano da clamoroso assist agli avversari è:«non dobbiamo consegnare la Sicilia ai 5stelle», l’inno al meglio della partecipazione possibile rimane questo.
Un po’ come quando la squadra campione del mondo di calcio doveva affrontare in una amichevole di lusso la selezione del resto del mondo.
Alla base della candidatura di Micari comunque c’è stato il ’bluff lungo’ di Leoluca Orlando. Il sindaco di Palermo infatti, grazie al tempo tolto agli avversari in occasione delle amministrative dove ha vinto ‘per esclusione’ più che per ‘distacco’, si è impadronito di una regia delle operazioni a cui Renzi, più per necessità di attesa che per reale convinzione, ha dato corda.
La territorializzazione della scelta di Micari ha innervosito Enzo Bianco, ha reso il centrosinistra ancora più palesemente vulnerabile nell’affermazione delle proprie scelte confinandolo al rango di azionista di riferimento. Ma soprattutto ha dato a Orlando un ruolo insperato e fuori proporzione rispetto al suo peso specifico.
C’è veramente qualcuno che pensa che un Orlando diverso dal livello basico di oggi come radicamento avrebbe dato spazio ad altri?
La vecchia regola del centrosinistra che vuole in campo personalità defilate in posti chiave come questo si è sposata pienamente con l’esigenza del settantenne più battagliero della politica isolana.
Adesso nel centrosinistra, più che il campo largo c’è un campo affollato da sgomberare, se si vuole rimanere sul terreno di gioco per vincere.