Il 1812 per la Sicilia è l’anno di svolta sia sul piano politico che su quello economico. La Costituzione, imposta dal Parlamento al sovrano – ad apporre la firma di promulgazione è l’erede al trono Francesco, al quale re Ferdinando, polemicamente aveva trasferito i propri poteri investendolo dell’alter ego -, travolge l’antico stato feudale e ridisegna, avendo a modello quelle inglesi le istituzioni dell’Isola.
Punto qualificante del nuovo ordinamento è proprio l’abolizione della feudalità. Secondo il Balsamo, che materialmente scrisse la nuova Carta, l’abolizione della feudalità, almeno dal punto di vista teorico, avrebbe dovuto permettere di scuotere l’immobilismo economico e sociale che aveva fino ad allora contraddistinto l’isola; e tale avrebbe potuto essere se dietro i solenni e nobili principi che l’animavano non ci fosse stato un disegno “perverso” di quell’aristocrazia che, fino ad allora, aveva esercitato il potere reale in Sicilia e frenato ogni tentativo di modernizzazione.
Infatti la disposizione – quella del paragrafo 6 del capo I, quello che riguardava “la feudalità” – precisava che “Cessando la natura e forma de’ feudi, tutte le proprietà, diritti e pertinenze per lo innanzi feudali, rimaner debbono, giusta le rispettive concessioni, in proprietà allodiale presso ciascuno possessore”. Qui stava l’inganno, infatti attraverso quella disposizione ai baroni veniva riconosciuta la piena proprietà dei feudi, sgravata da ogni corrispettivo che in precedenza il feudatario, in assenza della piena proprietà, doveva nei confronti del Regno.
Con quella disposizione, che indubbiamente agevolò la mobilità, si fece dunque un gran regalo a quel ceto parassitario che, come è abbastanza noto, ha fortemente e negativamente pesato sulle vicende della Sicilia. “L’abolizione della feudalità – scrisse Francesco Renda – si tradusse dal punto di vista patrimoniale nella fine del dominio feudale, trasformato gratuitamente in proprietà privata senza alcuna compensazione legale per le popolazioni”.
Furono, infatti, insieme alla stessa feudalità cancellati gli usi civici che, fino ad allora, gravavano sulle terre feudali espropriando, di fatto, le popolazioni di diritti che avevano nel tempo consentito una qualche forma di sostentamento delle popolazioni contadine. In poche parole, con l’abolizione della feudalità, i poveri divennero più poveri.
Dunque, dopo la riforma del 1812, quella che era la Sicilia del feudo, si trasformò nella Sicilia del latifondo e quelli che erano gli antichi e arroganti feudatari, si trasformarono in nuovi e altrettanto arroganti latifondisti, spesso in odor di mafia, mentre il paesaggio agrario, come letterariamente l’ha tramandato il “Gattopardo, continuava a restar segnato dalla sua tragica irredimibilità”.