Bancarelle improvvisate, carretti volanti, camioncini, tavoli per la strada, tovaglie a quadri, olio di semi, fritture, bracieri, ceste piene di strane prelibatezze. Benvenuti a Palermo dove c’è chi se la gode ad ogni ora del giorno gustando un succulento cibo di strada.
E che cosa sarebbero le vie, le piazze del capoluogo senza i loro pittoreschi venditori di panelle e crocchè? Padelloni unti e scuri, dove l’olio bolle e ribolle, accolgono amorevoli la farina di ceci tagliata a rettangoli. A far compagnia alle famose panelle gli immancabili “cazzilli” di patate che in mezzo alla mafaldina di pane accettano d’essere schiacciati e compressi. E poi la deliziosa melanzana fritta che trasuda olio, ottima compagnia ad uno dei piatti cult della cultura panormita. Non esiste un’ora esatta per gustare le panelle e le crocchè, c’è chi inizia così la propria mattina, chi le sceglie per pranzo e chi come merenda. Ma il dato straordinario è che non potrebbero mai mancare agli angoli delle strade.
Così come la milza, il polmone e lo scannaruzzatu. Infatti solo a Palermo, per non buttar via nulla, poteva inventarsi u pani ca meusa e le sue deliziose varianti. C’è chi lo mangia con sale e limone, chi col formaggio e chi lo preferisce con la ricotta fresca. E poi u mussu e u masciddaru e ancora a quarume, ovvero le interiora del bovino. Un profumo corposo e deciso si alza da queste prelibatezze amatissime per qualcuno, più gradevoli al palato che non alla vista per altri.
È un cibo al quale ci si deve educare se non si nasce a Palermo, giorno dopo giorno e con la dovuta accortezza. Sapori forti e delicati assieme come le stigghiole, le budella di agnello che solo a sentirne il profumo sale l’acquolina in bocca. Basta seguirne l’effluvio del fumo, che poi è solo grasso che cola, per provare una delle gioie più inaspettate dei sensi. Come il mistero nascosto tra la cesta che accoglie la frittola, rigorosamente celata allo sguardo degli avventori e avvolta in una tovaglia da tavola quadrettata. Il frittolaro suole calare la sua mano e tutto l’avambraccio ormai depilato dal movimento della presa, per catturare questi scarti della macelleria: grassetti, pezzi di cartilagine strappati alle ossa e poi fritti e speziati assieme, per deporli su una carta oleata o in mezzo ad un panino fresco.
E ancora lo sfincione “itinerante” e le arancine o i polipi bolliti. Il tutto accompagnato sempre da mezza birra, così si chiama a Palermo la bottiglietta da 33 cl. E attorno al cibo di strada si incontrano e conversano animatamente gli uomini dei vari quartieri della città. Come un rito pagano, una danza propiziatoria che invoca l’abbondanza, una merenda collettiva che unisce da sempre il sentire popolare di questa città.
Ma è una cerimonia tutta al maschile, le donne infatti non sono ammesse, non posso bivaccare tra un bicchiere di birra e un morso tirato con appetito ad un panino. Insomma è una prassi che chiama a raccolta tutta la “virilità” della Palermo popolare tra erutti, scorregge ed esternazioni che non si addicono affatto alle orecchie del gentil sesso.
Perché come è noto le donne che abitano i quartieri popolari possiedono tutta la leggiadria dello scorzonera, delizioso gelato alla cannella e al gelsomino. Infatti quando i propri uomini arrivano a casa barcollati e in preda ai fumi dell’alcool sono solite accoglierli come deliziose geishe:
“Totò, si na cosa inutili! Si un Pinnaluocca”
“Marì, và cucina ca sugnu stancu”
“Sta minchia ti preparo astura! Finisti ri manciari uora. Magnaccioooo, si un magnacciooo [1]”.
Il più delle volte, il marito va a letto con tante mezze birre in corpo, che così ha l’illusione di aver bevuto poco, lasciando libera la moglie di guardare i suoi programmi televisivi preferiti o di ascoltare a tutto volume Gianni Celeste sognando in napoletano un amore mai avuto. Ma questa è un’altra storia che però ha a che fare con gli avventori e la bellezza e la bontà del cibo di strada o street food, come ama chiamarlo la contemporaneità che invece puzza di globalizzazione. E mentre un hamburger da Mac Donald’s ha lo stesso sapore sia a New York che a Milano u pani ca meusa lo si può gustare solo a Palermo, alla faccia di chi sostiene che qui abbiamo solo la mafia!
[1] Serie di imprecazioni realmente ascoltate a Palermo.