La rivoluzione del 1848 in Sicilia porta un’eccezionale ondata di rinnovamento liberando energie a lungo compresse, perfino anticipando discussioni su problematiche ancora molto lontane dal sentire comune del tempo.
È il caso di rivendicazioni femministe ante litteram che, sorprendentemente, si manifestano nel contesto di una specie di sodalizio al femminile raccolto attorno ad un foglio: “La Tribuna delle donne”. Di questo periodico uscirono solo due numeri a distanza di un mese l’uno dall’altro.
Redatto ed editato da sole appartenenti al gentil sesso, che nascondevano il loro nome dietro quello di personaggi letterari, fu pubblicato a Palermo il 21 giugno 1848.
Tutto si avvia da una sorta di auto convocazione di ben 136 donne a casa della duchessa Guidolfi che, proprio lì, si danno un preciso compito scolpito in un passaggio significativo del loro programma dove sta scritto “là sarà rovesciato l’impero che gli uomini esercitarono su di noi; là accenderemo il sacro fuoco della libertà e delle virtù dando bando all’arbitrio”.
Quelle donne celebrano enfaticamente il successo della rivoluzione del precedente 12 gennaio ma, nello stesso tempo, lamentano che per quanto riguarda la condizione delle donne nulla era cambiato. Anzi, al dominio tradizionale si aggiungeva l’indifferenza e un ulteriore degrado nella considerazione della loro identità. Parole forti aleggiavano fra le righe contro la supremazia dell’uomo, come “noi concordi frangeremo quel laccio di dominio al quale gli uomini ci tengono avvinte”.
Quella frattura auspicata si concentrava in una richiesta che, sorprendentemente, anticipava di molti decenni una delle conquiste civili più importanti. Si trattava dei diritti politici infrangendo una concezione mai prima di allora messa in discussione. Ecco, dunque, un altro passaggio significativo riportato dalla Tribuna: “S’infranga una volta l’orgoglio dei legislatori della Camera dei Comuni, si persuadano essi che ancor noi possiamo dettar leggi e con quella spontaneità che onora e sublima il nostro sentire”.
E qui la conclusione ovvia del discorso “…chiederemo anche noi di essere elettrici, per conseguenza rappresentanti, chiederemo una terza Camera, ed il Comitato misto sarà composto di tre generi, secondo i principi della grammatica, maschile, femminile, neutro” con un esplicito richiamo, in un tempo in cui l’omosessualità era non solo condannata ma costretta con la violenza a ritirarsi dallo spazio pubblico, a dare voce anche al “diverso”.
Ma queste antesignane della modernità arrivavano a spingersi oltre, fino ad affermare la superiorità femminile così da scrivere. ”Se invece della Camera dei Pari ci fosse la Camera delle Paresse, la cosa camminerebbe meglio”. Idee rivoluzionarie, che mettevano in forse l’assetto stesso della società in nome “dell’ardente desio di renderci libere e indipendenti”.
Per portare avanti queste richieste quel gruppo di donne redasse uno “Statuto Organico dell’associazione delle donne”. E, messo appunto quest’ultimo, in un accorato e enfatico appello rivolto a tutte le donne invitava “Alla guerra, adunque o eroiche donne, alla guerra contro gli uomini. Riunite nelle vostre tribune speculate, inventate, scrivete. Verrà dì che gli uomini diranno insensati! e perché le abbiamo noi disgustate.”
Un’esperienza sorprendente, come sorprendente appare il fatto che dal 21 luglio non si trovi più traccia di queste ardimentose. Ed allora, possiamo solo dire che ci resta una pagina di una modernità inaspettata sulla quale è d’obbligo riflettere.