Possiamo influire sulla prevenzione o evoluzione delle malattie cardiopatiche
Cari Liberi Nobili, oggi mi soffermerò sul fatto che esistono specifiche dinamiche psicologiche, diverse a seconda della struttura di personalità, innescate dalla cardiopatia così come, contemporaneamente, sono proprio tali accadimenti psichici che possono innescare la patologia.
C’è un limite di traumi che un essere umano può sopportare. Quanto tempo può resistere alle offese all’autostima, a dispiaceri, a lambiccamenti vari, tenendo dentro di sé e attorno a sé emozioni e persone tossiche? In concomitanza di determinati stressors ambientali si attiva la patologia a cui siamo geneticamente predisposti (Glen O. Gabbard).
I risultati delle ricerche condotte sul versante psicologico della malattia cardiaca –in particolare, da Booth-Kewley e Friedman (1987)- hanno evidenziato che le patologie coronariche sono complicate da reazioni ansiose, comportamenti alimentari scorretti, relazioni disfunzionali alle quali si aggiungono spinte depressive, sentimenti d’invalidità, problemi economici e lavorativi, problemi di efficienza fisica. C’è alla base, cioè, una determinata configurazione personologica che influisce sui sintomi, sulle reazioni, sui comportamenti assunti da un soggetto, differenziandolo da altri pazienti affetti dallo stesso male per il modo di vivere la patologia.
I sintomi ansioso-depressivi rappresentano una risposta emozionale a essa e ne favoriscono la patogenesi, attraverso una complessa modulazione neurofisiologica. Il cuore, al tempo stesso muscolo e pompa, scrive Claudia Rainville, rappresenta la motivazione a vivere. Se si ha l’impressione di non dover fare molti sforzi per vivere, gli si richiede poco lavoro. Se, invece, si percepisce la vita come una continua lotta, senza mai riposo, si potrebbe chiedere uno sforzo eccessivo e in tal modo sfiancarlo.Le persone/emozioni tossiche limitano l’energia che serve al cuore per pompare adeguatamente. La serenità e la gioia di vivere possono garantirci un cuore perfettamente sano.
In termini probabilistici, esistono delle variabili psico-comportamentali in grado di influire sullo sviluppo della malattia che consentono, dunque, di individuare i fattori predittivi in grado di anticipare l’evento cardiaco. Grazie al suo intervento, lo Psicologo clinico porta l’individuo a comprendere quale sia il proprio errore evolutivo, per non ripeterlo nella stessa forma, quale sia la propria struttura di personalità, per rispettarla e assecondarla, quale sia il compromesso che deve raggiungere fra ciò che vuole e ciò che può avere e quali preconcetti condizionano la propria intera esistenza, per smontarli o rielaborarli insieme.
Trascurare una dimensione dell’essere umano, mentre se ne sta curando un’altra, significa essere colpevoli di riduzionismo limitante perché tutte le dimensioni sono legate tra loro e costituiscono, nell’insieme, l’essere umano.
Pensiamo, per esempio, a un braccio rotto e al fatto che la prima cosa che si pensa è di farlo ingessare; certamente non si tende a indagare sulle cause interne che possono rendere un soggetto distratto a tal punto da risultare un pericolo per la propria incolumità o per quella degli altri.
Per immergerci nel profluvio creato dalla mente di un soggetto, agli Psicologi è assegnato il compito di indagare su quanto vi è di non visibile, ignoto e intangibile –come sogni, paure, speranze, impulsi, desideri, immagini di sé, percezione degli altri, dolori, conflitti, timori, paturnie, marasmi, difese e reazioni psicologiche riferibili ai sintomi-. I sintomi e i comportamenti vengono a essere il comune collettore finale di esperienze altamente personali e soggettive che filtrano i fattori determinanti biologici e ambientali della malattia.
Non dobbiamo risolvere soltanto il “problema della malattia” ma anche “il problema del malato”. Il cuore va nutrito, non va affamato né maltrattato né intossicato. D’altronde, non c’è consapevolezza senza dolore (Jung). Lasciamo che la malattia ci direzioni e non che ci destabilizzi.