Fin dal primo mattino di quell’otto luglio del 1960 a Palermo si respira un clima teso. E’ stato proclamato uno sciopero generale, fabbriche e cantieri edili sono chiusi e i lavoratori si stanno organizzando in diversi cortei per partecipare alla manifestazione in piazza Politeama.
Nel centro cittadino quasi tutti i negozi e i bar, sono chiusi e nelle vetrine spicca un cartello in cui si solidarizza con le ragioni dello sciopero “per il progresso economico della Sicilia”.
Sembra un normale sciopero sindacale ma i motivi vanno al di là delle rivendicazioni sociali e sono prettamente politici.
Tutto il paese è in subbuglio e lo sciopero ha carattere nazionale ed è stato preceduto da una serie manifestazioni in tutto il Paese contro il pericolo di una svolta autoritaria minacciata dal governo presieduto dal democristiano Ferdinando Tambroni, eletto con i voti del Movimento Sociale Italiano, il partito erede del fascismo e che all’atto del suo insediamento si era rivolto con toni minacciosi nei confronti del Parlamento.
La tensione è al massimo, anche perché il giorno prima la polizia a Modena ha sparato contro i manifestanti uccidendo sei operai.
Il casus belli era stato provocato dalla decisione del Movimento Sociale di svolgere a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, il proprio congresso in cui, peraltro, era previsto che a presiederlo sarebbe stato Carlo Emanuele Basile che proprio a Genova si era distinto nelle persecuzioni contro gli antifascisti.
Dal capoluogo ligure la protesta divampò in tutta Italia.In Sicilia lo sciopero nazionale si salda con una forte mobilitazione sociale già in atto nell’isola. Proprio a Palermo il 27 giugno si era svolta una grande manifestazione di edili che rivendicavano il contratto provinciale della categoria.
A piazza Politeama, sotto un caldo asfissiante, cominciano ad arrivare i primi gruppi di lavoratori, ma a poco a poco dai vicoli del centro storico giungono, a piccoli gruppi, molti cittadini. In maggioranza sono giovani, che si notano subito perché indossano le caratteristiche magliette a strisce, secondo la moda del momento.
Sono l’espressione più genuina del popolo palermitano che nulla hanno a che vedere con le organizzazioni sindacali, non sanno neanche chi è Tambroni, si sentono, però, vicini ai lavoratori, con cui condividono, anche se meno privilegiati perché non hanno un lavoro, la stessa condizione sociale.
Essi, in quel momento, intravedono in quella lotta e in quello sciopero l’occasione per un radicale cambiamento delle loro condizioni di vita, spinti più da un forte istinto sociale che da obiettivi politici.
Una voglia di ribellione che si manifesterà anche in modo violento, al limite dell’insurrezione, esasperati anche dal comportamento delle forze dell’ordine che avevano avuto la direttiva di reprimere ogni manifestazione in ogni modo e con ogni mezzo.
E’ la Palermo diseredata, dimenticata, composta in gran parte da disoccupati, lavoratori occasionali, baristi, gente che si arrangia in ogni modo per sbarcare il lunario anche con furtarelli e piccole attività illegali. Esclusa dal benessere del boom economico di quegli anni, vede in quella giornata e in quello sciopero l’occasione per il riscatto sociale, una specie di ora X per un atto risolutivo che ponga fine alla loro stentata esistenza.
Vi è una bellissima poesia- canzone di Salvo Licata che rievoca con commozione quel giorno: “Non si muove un monello, è un teppista ignorante, un barista del Capo, non è andato mai a scuola! E in quel giorno di luglio non ha letto il cartello: non calpestate le piante!”
Questa voglia di ribellione, infatti, ben presto esploderà con atti anche di vandalismo e si trasformerà in una vera e propria guerriglia urbana.
“Avete voluto fare bella via Libertà ma case per i poveri non avete fatto”, grida un vecchietto! Dieci, venti mani afferrano un albero in via Principe Belmonte, lo strappano dalle radici e lo trascinano in via Ruggero Settimo.E’ l’avvio delle barricate. Tutte le recinsioni delle aiuole sono distrutte, i sedili di via Libertà smantellati, i semafori distrutti, come racconterà Mario Farinella nel reportage di quella giornata sulle pagine del giornale L’Ora.
“Basta, basta, state calmi”, grida il segretario della CGIL Pio La Torre, tirando per la giacca un manifestanteintento a sradicare una panchina.
Lasciami fare, gli risponde. Ma tu sei pazzo lo redarguisce La Torre.Ah io sono pazzo, perché sono un morto di fame. Ho dimenticato che sapore ha un piatto di pasta asciutta mentre tu, segretario dei miei stivali hai mangiato a mezzogiorno e mangerai anche stasera e domani!
Al lancio di pietre la polizia risponde prima con candelotti lacrimogeni, poi con raffiche di mitra.
Il bilancio sarà di quattro morti, centinaia di feriti e centinaia di arresti.
Il primo a cadere è un giovane di sedici anni, Giuseppe Malleo. Subito dopo nei pressi di via Orologio è la volta del sindacalista Francesco Vella, abbattuto da una raffica di mitra nel tentativo eroico di tirare a sé un ragazzo e sottrarlo al fuoco incrociato della polizia.Accanto a lui si accascia colpito a morte Antonio Gangitano, un giovane di ventun anni del rione Santa Chiara.
Il diluvio di proiettili non risparmia una donna di cinquantun anni, Rosa la Barbera che si era portata alla finestra della propria casa che si affacciava su via Ruggero Settimo proprio di fronte ai magazzini Standa di allora. Voleva chiudere le imposte per impedire al fumo dei candelotti di penetrare nella propria abitazione.
La battaglia durerà più di otto ore e solo a tarda sera calerà un lugubre silenzio, interrotto ancora da qualche sporadico colpo di arma da fuoco, mentre centinaia di camion e di autoblindo ormai hanno il controllo della città.
L’indomani mattina lo spettacolo che si presenta agli occhi dei palermitani è terrificante. Panchine distrutte, alberi estirpati, ringhiere divelte, semafori distrutti, vetrine in frantumi. Lo stesso manto stradale è frantumato perché con le panchine distrutte hanno fornito le pietre, l’unica arma dei dimostranti. Nulla è stato risparmiato, ad eccezione delle luminarie per il festino di Santa Rosalia, unico simbolo che i dimostranti sentono come cosa propria e quindi da salvaguardare.
La mobilitazione promossa in tutta Italia dalla CGIL con il sostegno del partito comunista raggiunse il suo obbiettivo: il governo Tambroni fu cacciato, il pericolo di un’involuzione autoritaria fu sventato. Lo stesso Aldo Moro nel ribadire le radici popolari e antifasciste della DC giudicò un gravissimo errore quel governo e l’alleanza che lo sosteneva, denunciando l’uso dell’anticomunismo per coprire politiche oppressive e di conservazione sociale.
Tuttavia, le ragioni profonde che avevano spinto la parte più povera ed emarginata della città a partecipare a quel movimento non furono comprese dalla sinistra, manifestando anzi un certo imbarazzo nel giustificare gli atti di violenza, ricacciando in tal modo quell’area di diseredati nei confini della loro emarginazione sociale.
Vi sarà soltanto un generico documento della CGIL di denuncia sulle condizioni di povertà e arretratezza di alcune aree della Sicilia. Nessun cenno specifico alla vicenda palermitana, neanche la richiesta di costruire qualche migliaio di alloggi popolari o qualche misura straordinaria per l’occupazione come avverrà nei decenni a venire, con l’assunzione, attraverso il precariato, nella pubblica amministrazione per i figli e i nipoti di quella borghesia che aveva manifestato scandalo e disprezzo per quella rivolta popolare.Un errore che lascerà il segno nella città. Una lezione ancora attuale di fronte ai drammi sociali che stiamo vivendo.