Era arrivato in Italia dal Pakistan cinque anni fa con la speranza di costruirsi un futuro, Adnan Siddique, 32 anni, è stato assassinato a coltellate a Caltanissetta mercoledì 3 giugno.
Secondo gli investigatori che indagano sul delitto, sembrerebbe che l’uomo sia stato ucciso per avere preso le difese di un gruppo di braccianti connazionali vittime del caporalato.
Le indagini hanno portato all’identificazione di quattro connazionali della vittima ritenuti responsabili del delitto e un fiancheggiatore.
I militari, dopo aver sentito alcuni testimoni oculari, hanno individuato i malviventi ed hanno fatto irruzione in un’abitazione di Canicattì in cui, questi ultimi, si sarebbero rifugiati. Rinvenuta, durante l’indagine, anche l’arma: un coltello di circa trenta centimetri che gli autori avevano provato a occultare.
Adnan Siddique
A Lahore, metropoli pakistana di 11 mila abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta lavorava come manutentore di macchine tessili e si era fatto degli amici.
Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola. E con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro. In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano.
Gli amici
“Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno – lo avevano picchiato“. Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, conferma. “Era bravissimo, gentile – afferma – quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria“.
La famiglia
Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.