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Palermo, città sospesa fra il Genio e Santa Rosalia

venerdì 14 Luglio 2017

Vi proponiamo oggi una passeggiata per la Palermo misterica che comincia dal lungomare del Foro Italico, l’antica passeggiata chiamata “la Marina”, fino a giungere nel piano di Sant’Erasmo che vide nascere nel 1778, proprio dove il Tribunale dell’Inquisizione per più di tre secoli aveva collocato i suoi tragici roghi, il primo giardino pubblico della città che prese il nome da Giulia D’Avalos, moglie del Viceré Marcantonio Colonna di Stigliano.

L’ideatore, il sacerdote Nicolò Palma, volle accentrare in questo quadrato nella Villa Giulia uno spazio circolare che nel 1780 accolse una fontana con un dodecaedro di marmo e dodici orologi solari ideati da Francesco Ignazio Marabitti a cui fu commissionata dal Senato Palermitano, anche, una statua raffigurante il “Genius”, posto su di uno scoglio roccioso al centro di una vasca circolare in pietra di Billiemi, vestito con l’armatura romana, con sul capo la corona, in una mano un lungo serpente aggrovigliarsi per il tronco, nell’altra lo scettro, simbolo del potere regale e con altri, richiamanti le virtù, ai suoi piedi: il cane la “fedeltà”, la cornucopia “l’abbondanza”, l’aquila dalle ali allargate “l’insegna della città”.

Ma ecco qui subentrare la prima analogia, non tanto azzardata, tra Panormus e Cerere, in quanto entrambi accompagnati dal serpente, dall’aquila, dal cane e dalla cornucopia, e rafforzata, addirittura, dal fatto che la statua del Genio, nella fontana di Piazza Rivoluzione, prese proprio il posto di quella della dea; la seconda, altrettanto interessante, è che il serpente, il cane e il triscele, che appaiono nella statua del Genio di Villa Giulia (che è quello che oggi ho eletto a principe dell’articolo), personificano anche Asclepio,dio della medicina, e starebbero, quindi, a sottolineare anche le sue capacità taumaturgiche.

Alberto Samonà, giornalista e scrittore palermitano nonché studioso di simboli, ritiene che il Genio di Palermo sia legato a conoscenze pagane certamente diffuse in città in epoca rinascimentale. In questo periodo, infatti, ermetismo e alchimia erano prerogativa di molti eruditi che conoscevano antichi manoscritti presenti nell’abbazia Benedettina di San Martino delle Scale. Il Genio sarebbe, dunque, una rappresentazione Hieroglyphica, nel senso di ermetica (o più letteralmente “divina”), e il triscele, antichissimo simbolo di ciclicità, assurto a emblema della Sicilia e simile allo svastica, anche se dotato di tre gambe, indicherebbe proprio la successione delle stagioni e quindi il fluire del tempo.

Altro particolare molto interessante che lo scrittore fa notare è che la frase dell’iscrizione del Palazzo Pretorio, “Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit“, potrebbe avere un significato esoterico “altro” rispetto a quello profano che comunemente gli si attribuisce; la lettura potrebbe non essere: “divora i suoi figli e nutre gli stranieri”, ma piuttosto: “il tempo è divoratore delle cose che a lui soggiacciono ma riverisce il parto straniero e immortale della mente, in modo che le opere degne di eterna vita non soltanto non vengono divorate dagli anni, ma piuttosto consumano e divorano i secoli quando siano espressione di immortalità e del Divino”… Altro richiamo al tempo, a un Genio inteso come rappresentazione di Crono/Saturno, un arcano che osserva e veglia su Palermo dalla notte dei tempi.

Ma i panormiti sono visceralmente legati e devoti anche a Rosalia, la Santuzza, l’aspetto sacrale della città, la cui leggenda ha inizio sul Monte Pellegrino, l’axis mundi, che la sovrasta e prende il nome da quel Santo Pellegrino che nel I secolo d.C., a quanto si narra, riuscì a convertire il popolo al Cristianesimo. Per la Santuzza, nata a Palermo dal conte Sinibaldo e da Maria Guiscarda e vissuta nel XII secolo, era stato pianificato un futuro degno delle sue nobili origini che lei rifiutò fuggendo da casa e nascondendosi prima in una piccola grotta riparata dal fitto bosco della Quisquina, in provincia di Agrigento, territorio che, appartenendo alla sua famiglia, conosceva bene e poi, su concessione della regina Margherita (moglie del re di Sicilia Guglielmo I), in una grotta sul Monte Pellegrino, dove continuò a vivere in preghiera e in solitudine fino alla morte avvenuta, probabilmente, il 4 settembre del 1160.

Il 15 luglio del 1624, mentre a Palermo infuriava la peste, proprio nel luogo in cui, a una tale Geronima La Gattuta, apparve in visione Rosalia furono ritrovati i suoi resti e quaranta giorni dopo, all’ingresso della grotta della Quisquina, un’iscrizione in latino arcaico, attribuita alla stessa Santa, che recitava: “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e del Monte delle Rose, ho deciso di abitare in questa grotta per amore di mio Signore Gesù Cristo”.

Nel febbraio del 1625, in seguito a un’altra visione, il Cardinale Giannettino Doria, dopo aver riunito una nuova Commissione, certificò l’autenticità delle ossa che si narra, portate in processione il 7 giugno dello stesso anno in una teca in argento e cristalli, fecero regredire la peste fino a farla scomparire del tutto il 15 luglio del 1625, a un anno esatto dal loro rinvenimento. Il 15 agosto il Senato Palermitano proclamò S. Rosalia prima Protettrice di Palermo; il 26 gennaio del 1630 Papa Urbano VIII la inserì nel Martirologio Romano e nel 1637 le reliquie furono poste in un’urna, capolavoro dell’oreficeria del primo barocco palermitano.

Unità e non contrapposizione, quindi, tra i due simboli di Palermo, legati da un filo invisibile e, forse entrambi, da radici misteriche? Chissà.

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