Terminati i fasti auto-celebrativi di “Manifesta 12” e di “Palermo Capitale Italiana della cultura 2018”, il capoluogo siciliano ha riacquistato l’aspetto di sempre, soprattutto con i problemi di sempre, che non soltanto non sembrano risolti, ma che appaiono addirittura più gravi del passato. Si va da quella che è oramai una sorta di “emergenza strutturale” dell’immondizia (perdonate l’apparente contraddizione), alla chiusura di consolidate attività economiche e commerciali, non ultime le storiche librerie cittadine, alla carenza di manutenzione di tombini e strade che esplode in tutta la sua puntuale drammaticità in occasione di qualsiasi temporale, fino alla fuga costante dei giovani diplomati e laureati che non trovano in città alcuno sbocco.
Il tutto, mentre la lenta agonia di Palermo viene praticamente sottaciuta quasi da tutti.
Chi non ci sta sono coloro che vivono quotidianamente questa crisi e che sembra non siano più disposti a subire in silenzio il destino di Palermo: imprenditori, players, commercianti ed esponenti del mondo culturale, che se da un lato segnalano problemi strutturali non risolvibili con un colpo di bacchetta magica, dall’altro ritengono che si debba fare qualcosa per salvare la città.
Non usa mezzi termini Annibale Chiriaco, già vicepresidente nazionale ed europeo dei giovani imprenditori di Confindustria (braccio destro negli anni confindustriali di Matteo Colaninno), con una vasta conoscenza del territorio per aver fatto parte dei cda di varie public utilities sia cittadine che nazionali: “La nostra città – spiega – sta vivendo un momento di forte crisi economica e sociale: c’è una continua chiusura di imprese commerciali, artigiane e industriali. Nella sola via Roma, un tempo la capitale del commercio cittadino, ci sono oltre 80 vetrine di negozi chiusi da tempo, chiudono le libreria e le edicole (da oltre duecento, oramai a Palermo ve ne sono appena un centinaio). Da non sottovalutare, poi, è il problema della sicurezza dei cittadini palermitani, che in un contesto di crisi sociale, aumenta, come testimoniano i piccoli reati quotidiani che giornalmente vengono commessi nella nostra città, di cui poco si parla”.
“Quel che è più grave – aggiunge Chiriaco – è che c’è una forte recrudescenza dell’attività di Cosa nostra che in modo silenzioso e compiacente cerca di reinvestire a Palermo grossi proventi di attività illecite, importandoli anche da oltreoceano, in varie attività commerciali e industriali, un tempo di proprietà di famiglie imprenditoriali cittadine, poi svendute per pagare debiti provocati dalla crisi economica e sociale cittadina”. Infine, un appello a rilanciare la città facendo ciascuno la propria parte: “Dobbiamo tutti quanti, dalle classi borghesi ai ceti popolari, svegliarci dal nostro profondo torpore sonnolente che fino ad oggi sta imperversando ed agitare le nostre coscienze palermitane, per risvegliare il nostro orgoglio culturale ed etico. Necessario stringerci attorno alla nostra città, volerle bene e cercare eticamente di comportarci di conseguenza. È incredibile pensare che ad oggi nessuno smuova le coscienze e l’orgoglio del popolo palermitano a riprendersi le chiavi della nostra città… Mi rivolgo anche e soprattutto alla classe dirigente e borghese palermitana, fin troppo silente, cioè a tutti coloro i quali hanno funzioni di decisione nella vita economica, culturale e politica. Io ci sono e ci sarò se dovesse servire”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Fabio Sanfratello, presidente di Ance Palermo, l’associazione dei costruttori edili, un settore che soffre non poco la crisi di questi ultimi anni: “In città – sottolinea Sanfratello – tutte le attività sono alla paralisi e una delle responsabilità più grandi è da imputare alla macchina burocratica, sempre lenta, spesso inefficace.
E aggiunge: “Al Suap, ad esempio, lo Sportello unico delle attività produttive, che dovrebbe essere quello che incentiva e attorno al quale queste attività ruotano, ci sono procedure che dovrebbero durare per legge 90 giorni al massimo e che, invece, durano anni. Così – conclude – in città nessuno vuole più investire e gli imprenditori, per farlo, scelgono luoghi in cui la burocrazia non sia un intralcio”.
Una lettura ampia è quella di Patrizia Di Dio, presidente di Confcommercio Palermo, secondo cui nonostante il capoluogo siciliano abbia grandi opportunità, con un forte potenziale che si esprime anche con l’aumento del turismo e con un certo interesse internazionale (vedi visita del presidente cinese), manca comunque l’humus adeguato a sostenere le imprese esistenti sul territorio: “Se pensiamo agli anni della Regione nell’era Lombardo o nell’era Crocetta, vediamo che gli effetti di quelle politiche nefaste sono tuttora presenti, con l’onda lunga della riduzione delle esportazioni divenuta un problema strutturale. Attualmente c’è un governo regionale che stiamo osservando, ma sappiamo che le cose non si correggono dall’oggi al domani. Per quanto riguarda Palermo, mentre gli imprenditori devono essere attrezzati ad affrontare il mercato e restare competitivi, vediamo che in città manca una visione: il Suap non funziona, i regolamenti che darebbero chiarezza, trasparenza e opportunità agli imprenditori sono bloccati ed è chiaro che in assenza di certezze, gli imprenditori non rischiano. Penso alle mancate opportunità sulla via Roma: dal consiglio comunale non c’è stata l’approvazione di un regolamento e quello attuale impedisce l’apertura di strutture con più di 200 metri quadrati. E quindi, questo impedisce lo sviluppo”.
“Sul centro storico – aggiunge Patrizia Di Dio – non c’è un progetto identitario per questi luoghi, non c’è una visione prospettica. Viviamo in una città ostaggio di cantieri infiniti per i quali non si sa la data di fine lavori. In quale altra città con cantieri stoppati per mesi o per anni le aree non vengono liberate? Solo in una città in cui vige la rassegnazione: non è tollerabile che questo avvenga anche in zone essenziali per la mobilità come il Politeama. Una via d’uscita dovrebbe essere guardare alla città non per gli interessi particolaristici delle singole imprese, ma pensando allo sviluppo economico dell’intero tessuto sociale, salvaguardando quei posti di lavoro che solo le imprese creano. Ricordo a me stessa che le aziende piccole e medie e anche le microimprese danno l’87 per cento del pil di questo territorio. Ma se manca la progettualità, se non c’è uno standard di servizi adeguati (penso anche ai rifiuti, con la Tari che aumenta ogni anno senza una contropartita in servizi) e di rispetto del decoro urbano (pensiamo agli ambulanti che occupano in modo irrispettoso la via Maqueda vendendo prodotti a volte contraffatti), allora ci si deve indignare. Non è questo il nostro modello di città”.
Secondo l’antropologo Ignazio Buttitta, docente universitario di “Storia delle Tradizioni Popolari” ed “Etnologia Europea”, c’è un’agonia che “avviene nell’indifferenza generale e investe le piccole librerie che subiscono la crescita dei grandi shop del libro, e il piccolo commercio, stritolato dal proliferare di grandi magazzini”. “In generale – afferma – sono in crisi i luoghi di scambio, anche i barbieri e le botteghe lo erano, e c’è una crisi della comunicazione, della partecipazione, del fare e sentirsi comunità a tutti i livelli, dalla comunità cittadina a quella degli intellettuali. Questa polverizzazione è essenzialmente spirituale e siamo davanti a un processo che va al di là della crisi economica e investe un po’ tutte le città, non soltanto Palermo. E’ una crisi dei grandi riferimenti con un impoverimento umano e intellettuale crescente, che ovviamente ha un’incidenza ancora maggiore in quei luoghi in cui dal punto di vista economico non c’è una vitalità, come avviene nel capoluogo siciliano”.
“A mio parere – dice Buttitta – questo fenomeno prescinde dall’amministrazione, ma è più ampio. Non possiamo nascondere il fatto che le amministrazioni orlandiane sul tema della cultura qualcosa in passato l’abbiano fatta e anche scuole e università erano un tempo luoghi di condivisione di idee. Adesso tutto ciò sta progressivamente venendo meno e questo spiega anche la sostanziale indifferenza con cui viene accolta la notizia di librerie e luoghi della cultura che chiudono. Come dicevo è un processo più generale e a mio parere, gli unici veri luoghi in cui si costruisce l’uomo e il cittadino sono la famiglia e la scuola: occorre ripartire dalla scuola primaria, per costruire un orizzonte valoriale che metta di nuovo al centro l’uomo e lo stare insieme. Credo che sia questa la grande sfida a cui siamo chiamati”.
Secondo Tommaso Romano, poeta ed editore palermitano, fondatore della casa editrice “Thule”, già assessore alla Cultura del Comune e della Provincia di Palermo a metà degli anni Duemila, il fatto che molte realtà storiche stiano chiudendo “è un segno dei tempi”: “Le piccole realtà – spiega – legate ai singoli, spesso a conduzione familiare, hanno poca vita rispetto all’offerta che esiste nel commercio on line. Il dato comunque positivo è che in generale il libro continua a resistere: il buon libro o la rivista di qualità continuano ad essere letti. Questo vuol dire che l’editoria di qualità ha ancora un suo spazio. Il fenomeno di Stefania Auci, ad esempio, è un indicatore interessante. Rispetto alla nostra realtà, mi pare che – a parte alcune autorevoli eccezioni – la nostra editoria abbia trascurato il romanzo storico, mentre la gente ha bisogno del mito, come i Florio, ma anche di miti moderni. L’editoria può, inoltre, riscoprire la settorialità, dando risposte molto forti a chi ha domande molto forti, ed è necessario riportare il lettore al romanzo”.
Sulla crisi di Palermo che investe anche la cultura, il professore Romano non fa sconti alle recenti esperienze cittadine: “La mia opinione è che operazioni come Manifesta e altre siano state occasioni mancate. Nessuna fra le manifestazioni recenti ha perpetuato un’idea di permanenza, ma la cultura non può essere effimera. A Palermo abbiamo troppo spesso assistito a ripetizioni di fenomeni di piccolo cabotaggio, a mostre prefabbricate, ad eventi che non hanno avuto alcun radicamento. Per non parlare dell’improvvisazione che a volte accompagna i fenomeni culturali, con gente che si improvvisa tutto ma non è niente. Non va sottovalutata, poi,ampliando lo spettro, la carenza sostanziale della scuola, che non dà più valori, nonostante i tanti buoni insegnanti che sono spesso degli eroi solitari. Nei ragazzi vedo un nichilismo sempre più preoccupante, con scuole e università che danno un sapere parcellizzato, privato da quella unità fondamentale della cultura, che va riscoperta e che è importantissima. Alla fine, ciò che conta è l’individuo ed è da lì che bisogna ripartire”.