Il gup di Messina ha condannato a sette anni di carcere Gaetano Maria Amato, magistrato messinese accusato di produzione e diffusione di materiale pedopornografico e violenza sessuale su minore.
Avrebbe ripreso col cellulare due ragazzine di 16 anni mentre dormivano, ne avrebbe spogliata una e poi toccata continuando a girare le immagini. Poi avrebbe messo in rete il video.
Nel suo pc gli inquirenti avrebbero trovato files scabrosi con protagonisti minori: Gaetano Amato, ex giudice della corte d’appello di Reggio Calabria non ha saputo dare una spiegazione plausibile. Il gup di Messina lo ha condannato a 7 anni di reclusione per violenza sessuale e produzione e diffusione di materiale pedopornografico.
Arrestato un anno fa dopo qualche mese è stato messo ai domiciliari in un centro di cura per persone affette da disturbi sessuali. Intanto, il Csm l’ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha aperto un procedimento disciplinare che potrebbe chiudersi con la radiazione.
L’inchiesta che ha portato al processo, celebrato in abbreviato, è stata coordinata dal procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dell’aggiunto Giovannella Scaminaci. Il reato contestato al magistrato è il 600-Ter del codice penale che punisce chi sfrutta minorenni per realizzare esibizioni pornografiche o produrre materiale pornografico.
Il reato fu commesso a Messina, città d’origine di Amato. Al momento dell’arresto il giudice era in servizio alla sezione penale della Corte d’appello di Reggio Calabria. In precedenza era stato alla sezione civile. Trascorsi i dieci anni era passato al penale dove ha fatto parte anche di collegi di Corte d’assise e della sezione misure di prevenzione.
Nel 2009, quando lavorava come giudice a Messina, Gaetano Amato subì un procedimento del Csm per un ritardo nel deposito di alcune sentenze. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppi provvedimenti del magistrato presentati oltre i termini. A Palazzo dei Marescialli lo avevano dichiarato colpevole e sanzionato con un’ammonizione.
Nel giugno del 2016 a Reggio Calabria fu tra i promotori di una iniziativa della Corte d’appello a difesa di una collega finita al centro delle polemiche per non avere osservato i tempi per la redazione delle motivazioni della sentenza del processo ‘Cosa mia’ sulle cosche di ‘ndrangheta di Rosarno, circostanza che avrebbe portato alla scarcerazione di tre presunti affiliati alle ‘ndrine.