Capisco che non è più di moda parlare di questione meridionale, tuttavia le condizioni del Sud e della Sicilia ci spingono a tentare di risvegliare l’attenzione, riaprire il dibattito e a tal fine possibilmente di riprendere una iniziativa.
Tutti i dati ci dicono, infatti, che siamo di fronte ad una situazione che presenta aree di un relativo benessere per pochi gruppi sociali a fronte di un aumento delle aree di povertà e di disagio sociale.
D’altronde basta girare per la città per accorgersi delle numerose persone che vivono e dormono davanti ai negozi, sulle scalinate, davanti ai portoni, sui marciapiedi e il lodevole impegno delle associazioni di volontariato, le strutture create da Biagio Conte non sono sufficienti ad alleviare queste sofferenze.
Le criticità e i disagi colpiscono anche la normalità della vita quotidiana con i servizi primari in crisi, la sanità che scoppia, i bisogni sociali compressi e i servizi pubblici in continuo affanno. A questo si aggiungono forme di regressione civile e l’insicurezza che si avverte con il preoccupante aumento della criminalità minorile, le scene di violenza, il diffondersi dello spaccio di droghe e la riorganizzazione della mafia nei quartieri e nelle borgate della città come anche recentemente ha lanciato con forza l’allarme la procura di Palermo in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario.
Un impoverimento della città che si accresce con la perdita della sua migliore gioventù che non vede l’ora dopo avere preso il diploma o la laurea di cercare qualsiasi opportunità fuori dalla Sicilia e dalla propria città.
E c’è ancora chi si interroga se esiste ancora una questione meridionale, ritenuta una questione del secolo scorso, ormai superata alla luce della globalizzazione e dell’ eccezionale sviluppo tecnologico.
In effetti non c’è più una questione meridionale nel senso che è stata cancellata da tempo dalle agende dei governi di ogni segno politico al punto che l’attuale governo propone “l’autonomia differenziata” tra le varie regioni, che ognuno deve saper fare da sé, si tratta solo di essere bravi e capaci.
Certo il Sud e per quel che ci riguarda la Sicilia paga anche la debolezza dei suoi gruppi dirigenti che peraltro continuano a sprecare le opportunità offerte prima dai fondi europei ora con il PNR che invece di essere usati come volano per un nuovo progetto di sviluppo su cui concentrare tutte le risorse disponibili si continua a utilizzare questi fondi secondo e criteri e modalità con cui si utilizzava la vecchia spesa pubblica attraverso interventi a pioggia spesso sotto la pressione di categorie, mascherati da interventi assistenziali che si ascrivono ad una falsa idea di stato sociale dal momento che invece di essere concessi a favore di soggetti deboli nella pratica favoriscono i soggetti più tutelati politicamente e sindacalmente.
D’altra parte distribuire assistenza, sussidi, contributi a fondo perduto e meno complesso e impegnativo che sostenere la creazione di impresa affermare una cultura di impresa, liberare il mercato da ogni forma di intermediazione, non solo politica, in cui esaltare le vocazioni territoriali creando nuova impresa e nuova imprenditorialità.
Che fare in questa situazione così grave e complessa? Bisogna in primo luogo fermare la desertificazione produttiva e puntare sui settori strategici su cui costruire una concreta prospettiva di sviluppo: un piano di infrastrutture materiali, civili e sociali, ricostruire un apparato industriale, puntare sull’agroalimentare, il turismo e i beni culturali e ambientali su cui investire in termini di ricerca, innovazione e formazione.
Un patto per lo sviluppo che rilanci una stagione di riforme funzionali alla ripresa dell’economia. Aspettiamo dunque che si muova la politica ma anche la cultura, il mondo sindacale, le forze produttive che ancora in Sicilia resistono evitando situazioni come quelle in cui si è costretti a dire: sì vi è del nuovo e del buono solo che il nuovo non è buono e il buono non è nuovo.