Ospitiamo questa interessantissima riflessione del regista Claudio Collovà sul teatro ai tempi del coronavirus. La sua situazione attuale, le politiche adottate fin qui e le prospettive e gli auspici su quello che sarà il futuro.
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Partiamo da un dato certo su cui difficilmente potremmo essere in disaccordo: il coronavirus non colpisce in modo equo, non ha nulla di democratico. Non si è abbattuto su di noi rendendoci uguali, anzi direi piuttosto che ha esaltato le differenze e le distanze di una categoria che tale non è mai stata.
Non siamo una categoria di insegnanti, né siamo una categoria di metalmeccanici. Non riusciamo ad avanzare proposte univoche perché non possiamo. E non lo dico con tono polemico o con rammarico. Il nostro mondo è così variegato che le distinzioni sarebbero infinite. Se davvero ci troviamo davanti a qualcosa di epocale, come da più parti sento dire, e siamo tutti d’accordo che non si può più tornare indietro, una fase storica come questa merita davvero una riflessione non affrettata, approfondita e soprattutto ‘ascoltata’. Può essere, come dire, l’aspetto positivo della tragedia, il virus ci dice forse: occorre non tornare ma ripartire da zero. Se il virus non c’è mai stato (e su questo ho i miei dubbi) anche il teatro che verrà dovrebbe in futuro non essere mai stato.
Ho una moderata fiducia che il Ministero della cultura prenderà provvedimenti a tutela dei lavoratori dello spettacolo. Franceschini lo ha già annunciato. Non ci sarà il panico nei teatri pubblici e in quelli finanziati, compagnie comprese, i parametri non verranno richiesti e i finanziamenti rimarranno tali e quali. Certo le perdite sono drammatiche in tutti i settori.
La Siae stima solo per i teatri, 100 milioni di perdite alla settimana. Ma ha altresì sollevato una questione importante: se mai ci dovesse essere un intervento straordinario non è ai teatri già finanziati che si dovrebbe guardare, ma allo stato di necessità di chi non è finanziato, cioè direttamente ai lavoratori indipendenti e non, ai lavoratori interinali, quelli cioè non contrattualizzati, e non alle case madri. Per queste non servono soldi in più, caso mai servirebbe un controllo severo sul ‘come’ spendono quelli che già ci sono, un controllo che non può basarsi solamente su criteri quantitativi, come è stato finora, modestamente mi permetto di suggerire.
Probabilmente ci saranno detrazioni fiscali, abbattimento degli oneri, agevolazioni nelle spese che si affrontano, e altre misure, ma è certo: l’emergenza che coinvolge tutti non si concluderà a breve.
Dovremo forse adottare regole di comportamento che coinvolgono sia il pubblico che il lavoro di palcoscenico, e comunque per gli spettacoli dal vivo sarà una regola paradossale, visto che il contatto è indispensabile e necessario, per la sua stessa natura. Né credo che la digitalizzazione possa sostituire alla lunga la vera esperienza di uno spettacolo dal vivo. Un video lo si guarda magari per studio, e bene fanno i teatri a liberare gli archivi, ma non potrà mai essere una esperienza diffusa. Diciamo un surrogato che non può diventare una pratica ordinaria.
Al momento non si sa nulla comunque né sul quando (sappiamo solo che saremo l’ultimo segmento a poter ripartire, si parla di dicembre, ma con quali produzioni?) né tanto meno sul come, né sui criteri da adottare in futuro. Le risorse messe in campo per le emergenze dei lavoratori dello spettacolo, circa 130 milioni, sono davvero insufficienti, se non ridicole. Alla fine si tratta dei famosi 600 euro che sembra debbano risolvere da soli la vita di ogni italiano. E quindi di ogni artista.
Viene da sorridere amaramente quando si pensa che in Germania ogni artista non contrattualizzato ha già ricevuto in 2 soli giorni 5.000 euro a fondo perduto, e non sotto forma di debito.
Allo stato delle cose, emergono solo domande. Che fine faranno comunque gli artisti con pochi contributi? Gli spazi teatrali non finanziati direttamente dal Fus? L’enorme numero delle associazioni culturali, vere imprese culturali e creative che contano essenzialmente sui contributi e sui finanziamenti degli enti locali, al momento ridotti al lastrico? So che gli Assessori alla cultura di ogni regione chiedono il riconoscimento dello stato di crisi – puntualmente negato –per il settore della cultura.
Ma volentieri, a questo punto del discorso, tornerei al virus Covid-19. ‘Non si può tornare indietro. Stupida verità!’ diceva un verso di Pasolini. Molti dicono che dopo saremo tutti diversi, e moltissimi pensano che saremo migliori. Può essere, ma non ne sono sicuro. Avremo anche molta paura in più, al pronti via!, potrebbe anche iniziare una sfrenata corsa verso la sopravvivenza. E noi saremo anche stremati dallo stato di necessità. Alcuni sostengono che sarà necessario elaborare nuovi immaginari, rivedere le politiche e le strategie dei teatri, proporre alternative al sistema oggi improponibile degli abbonamenti, adottare una politica di prezzi ridotti, produzioni contenute nei costi. Tutti giusti provvedimenti, per carità.
Ma io me ne auguro uno solo. Mi auguro che cambi radicalmente il nostro comportamento.
Un po’ perché non avremo più voglia di rivedere all’opera lo stesso vecchio sistema, un po’ perché davvero stanchi di subirlo. Poiché i sogni sono molto concreti al pari delle detrazioni fiscali, immagino, a partire dai nostri interventi:
che si possa superare la sensazione che l’arte nostra abbia a che fare con i centri di potere;
che la politica (a qualsiasi livello) si faccia da parte e smetta di interferire con le nomine o con le scelte;
che sia possibile un vero spirito di collaborazione tra i teatri finanziati a vario titolo e le compagnie e gli artisti indipendenti;
che ci sia cura attenta nei confronti del territorio (tanto più che non potremo viaggiare) e dei suoi artisti;
che ci sia quindi una vera e profonda conoscenza del territorio, a partire dalla città e dai suoi artisti;
che prevalga la meritocrazia riconoscibile e non il favore;
che i progetti artistici vengano sostenuti sulla base di ciò che esprimono e sull’autorevolezza di chi li propone;
che ci sia maggiore equilibrio, oserei dire etico, nella spesa e nelle paghe;
che non esista mai nel nostro settore il ricatto che non possiamo più tollerare;
che mai più venga citata e da nessuno la parola gratuità per il nostro faticoso lavoro;
che si smetta di inseguire il tutto esaurito per giustificare ogni scelta;
che ci si assuma il rischio che la nostra arte pretende per essere vera;
che si riconosca al teatro il proprio valore artigianale e che rispetti la necessità di tempi non affrettati;
che il teatro possa attraversare i suoi processi non in modo occasionale, ma continuo e permanente;
che la si smetta, come ho già detto, di rispondere in misura così smodata ai criteri quantitativi e commerciali;
che cessi per sempre l’idea che i teatri siano soprattutto equiparati ad aziende o che c’è solo un modo per salvarle;
che la si smetta di pensare come abitanti di comportamenti stagni ognuno dei quali viaggia da solo e capire che oggi finalmente non ha senso se solo tu ti salvi;
che non si scopra anni dopo di avere perso contributi per strada perché l’impresa non li ha versati;
che si smetta di attendere anni per ricevere un compenso, e di riceverlo infine come se fosse un favore e non un diritto;
che chi si occupa di cultura sia davvero competente, appassionato, curioso e che ogni decisione sia presa nell’interesse comune e non nell’interesse di puro esibizionismo privato;
che ci sia onestà e libertà artistica ma che ci sia anche onestà economica;
che si venga pagati dopo avere svolto un lavoro nei tempi certi;
che esista davvero una pluralità di linguaggi e che il lavoro dei giovani venga rispettato non per l’età che hanno, ma perché si crede di doverli promuovere e proteggere per ciò che sanno fare;
che esistano scuole di teatro che possano seriamente promuovere il lavoro futuro;
che possano esistere luoghi, tanti, dove si studi, si impari, si sperimenti, si insegni il valore della collettività e della comunione di intenti etc. etc.
Potrei continuare ancora con molti altri suggerimenti, primo fra tutti, che il nostro paese si accorga che la cultura è necessaria come il pane e necessita di risorse al pari della sanità e dell’istruzione.
Infine, poiché penso che il nostro sia un paese povero, a prescindere dal virus, forse dovrebbe esistere un teatro povero nel senso più nobile del termine. Tutto dovrebbe essere ridimensionato, ma questo non è un male. Povero significa necessario e non superfluo, non certo sciatto o non curato o privo di mezzi. Farebbe respirare meglio la nostra arte la totale abolizione piramidale della sua struttura fossile. Ecco insomma, al pronti via!, tutti noi dovremmo possedere un codice etico e uno spirito nuovo che ci permetta di ripartire da zero.
Forse, grazie anche a questo nuovo comportamento, risolveremo la presenza del pubblico nelle nostre sale e che, oggi forse si sente orfano di noi, ma ha sicuramente altre cose molto difficili a cui pensare.
Claudio Collovà
20 aprile 2020, in quarantena.