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Romanzi da leggere online: 17° capitolo del romanzo “La voglio gassata”

domenica 25 Agosto 2019

La 34^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il diciassettesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

CAPITOLO 17°

Per Kimberly si intravedeva un provino a San Pietroburgo, il tempio della danza.

Un giorno ero con Gloria, sua madre.

Forse sono stata l’unica persona con la quale lei affrontò l’argomento.

Mi disse: «Roberta, mi spaventa tutto questo. Non riesco a pensare per lei a una vita di sacrifici, non solo di successi.

«Non preoccuparti Gloria, nulla si conquista senza sacrificio le risposi, lei è dotata, ha un talento innato, che non si può ignorare. Se ognuno di noi ha un destino, il suo è quello di danzare.»

Capivo le incertezze, i dubbi di quella madre, cittadina di un mondo non suo, si scontrava con giudizi e modi di pensare che la riempivano di dubbi e di paure.

Lei in Kimberly vedeva solo sua figlia, non l’artista che avrebbe potuto diventare, la voleva madre e moglie felice con una normalità di sua scelta e non protagonista di un destino che tutti, vedendola danzare, le auguravano.

Cercai di rincuorarla, dicendole: «Gloria, sei lontana dalla tua terra, ma non sei sola, sai quanto ti vogliamo bene, la famiglia è anche quella in cui si vive tutti i giorni, con cui si condividono gioie e dolori. Se avrai bisogno, io ci sarò.»

Quelle mie parole erano servite, me ne accorsi perché da quel giorno il suo porsi nei confronti del sogno di sua figlia cambiò. Ancora una volta la madre prevalse sulla donna che doveva scegliere per Kimberly e per suo padre, rimasto nella loro terra d’origine con il resto della famiglia.

L’accompagnava a scuola e, talvolta, rimaneva a vederla provare, nei saggi si asciugava qualche lacrima, ma applaudiva fino a spellarsi le mani.

Gloria aveva capito che Kimberly era di tutti perché, vederla, era come vivere attimi d’incanto e questo dono era giusto lo regalasse a tutti.

Lei era una stella nata per illuminare la notte.

Nessuno di noi associò a questa realtà un pensiero: le stelle cadono, portandosi dietro una scia di luce sempre più debole e così si frantumano i sogni.

Kimberly si ammalò e si trovò ad affrontare delle prove di tutt’altra natura rispetto a quelle della danza a cui era abituata.

Se un movimento, una posa non erano corretti, lei provava e riprovava senza stancarsi, fino a raggiungere la perfezione.

Adesso non era più protagonista ma vittima di un nemico più forte e più grande di lei, e la sua forza di ragazzina nulla poteva dinanzi ad una leucemia.

Ne avevo sentito parlare e la temevo come tutti, come si temono i nemici forti, in parte conosciuti ma non ancora al punto da poterli debellare definitivamente.

Sono sicura: ciascuno di noi, per salvarla, si sarebbe addossato una parte di quel male pur di donarle la vita.

Non sapemmo mai quanta coscienza e consapevolezza la bimba ebbe, quanto pianse per non avere più la forza di andare a danza.

Lei prendeva le sue medicine, forse, pensando che una mattina si sarebbe svegliata sana come prima.

Da parte di tutti si sarebbe detto: “ricominciamo da qui”

Non fu così. Il suo colore preferito era il lilla e per il suo ultimo compleanno, i suoi compagni di scuola fecero volare in alto, dinanzi alla sua finestra, tanti palloncini di quel colore.

Non le era consentito uscire per la mancanza di difese immunitarie.

Tante volte mi sono chiesta: a cosa sia valso nascere per un cammino così breve? Tutti, nonostante l’evidenza, speravamo che la morte fosse risparmiata ai suoi giovani anni.

Ricordo bene un momento, che tante volte avrei voluto cancellare dalla mente.

Squillò il telefono e il sole si spense quando Gloria, con una voce affranta, mi disse: «Kimberly è andata via.»

Non fui capace di parlare, di dire una parola a cui Gloria potesse aggrapparsi, sapendo che nulla più le avrebbe potuto ridare la sua bambina, che il suo domani sarebbe sempre stato senza di lei.

Penso che per una madre non possa esserci un dolore più grande di quello di sopravvivere a un figlio.

Gloria era una fervida credente e sapeva, tramite la sua fede, come non finiva tutto con la morte, lei avrebbe ritrovato la sua bambina. Gloria non poteva andare con lei, aveva un marito, gli altri figli che contavano su di lei, su quei soldi che ogni mese puntualmente spediva, senza lasciare niente per sé, lei si accontentava di poco ed era ben consapevole che il suo mondo era ancora lì, lontano, da poter raggiungere soltanto col pensiero.

Dell’addio di Kimberly a questo mondo ricordo un colore: fiori lilla dappertutto, un padre, una madre e un fratellino che, dandosi la mano, l’accompagnavano, con tutto il quartiere in un posto buio e freddo, come un teatro vuoto.

Erano gente umile, venuti in Italia per problemi economici, ma la povertà sarebbe stata sopportabile se ci fosse stata Kimberly.

Ci siamo attivati in tanti, organizzai un concerto dove suonarono Roberto, mio marito e il dottor Vianelli

Grazie a dei video tutta la sera Kimberly danzò per noi, regalandoci giovinezza e vita.

Fummo tutti rapiti da un momento di grande commozione che riempì di silenzio il teatro. Kimberly danzava su una musica di Bob Dylan dal titolo: “bussando alle porte del paradiso.”

Lei non bussava, era già entrata dove i sogni vivono per sempre.

Dopo di allora, quando rivedo Gloria, non riesco a fare altro se non abbracciarla forte per la dignità con cui ha sopportato quel grande dolore.

Lei non sapeva che con il suo comportamento mi insegnava tante cose e mi piaceva imparare da lei perché il suo carattere si era forgiato con la scuola nella vita dura e malsana della sua terra, abituata a combattere con i terremoti, i maremoti che spazzavano in pochi minuti tutto quello che si erano costruiti in una vita. Sconvolgimento, dolore, morte ma non rassegnazione, il giorno dopo si ricominciava a costruire e ad affrontare una nuova vita.

La morte colpisce chi le aggrada, senza schemi né logica alcuna, è invisibile, sapendo che l’uomo non ha nessun elemento per metterla in ginocchio.

Un giorno, durante una crociera, c’era tanta pace, un mare calmo, un cielo azzurro e pensavo a Kimberly.

Alzai gli occhi verso il cielo perché quella era ormai la sua casa, e vidi qualcosa che la mia mente fotografò, per farla sua per sempre.

Due grandi arcobaleni s’intrecciavano creando un grande cuore.

Era Kimberly, ne ero sicura, mi abbracciava per farmi capire quanto certi eventi non sono spiegabili dall’uomo ma hanno un perché nella logica dell’universo.

Stavo vivendo un periodo in cui certi accadimenti mi mettevano al muro e non potevo evitare di esserne bersaglio.

Da lì a poco, mia madre iniziò a peggiorare ed io capii di dovermi preparare ad un’altra dolorosa separazione. Prima con papà e ora con lei morivano le mie radici.

Mia madre era in attesa dell’ambulanza e notai come fosse intenta ad osservare ogni piccolo oggetto di quella casa, per tanti anni al centro delle sue cure e della sua attenzione.

Con l’istinto che contraddistingue noi donne, sentiva la vita più lontana, la stava abbandonando.

Io rispettai il suo silenzio che aveva accompagnato tanti nostri momenti di vita e fu un sollievo sentire la sirena dell’ambulanza.

Speravo che la tempestività nel soccorrerla le regalasse un po’ di vita in più.

Lei, lucida mentre con l’aiuto di Emy, saliva in macchina, mi guardò e il suo saluto fu una sola parola: «Pensami.»

Nessun abbraccio tra di noi, in un certo senso l’ammirai, fu coerente con tutta la vita avuta alle spalle, lei sapeva che l’amore totalizzante l’avevo vissuto per mio padre e, se avessi detto allora qualcosa di diverso, sarebbe stato dettato dalla drammaticità del momento.

Quel “pensami” equivaleva a: “non dimenticarmi, ti ho voluto bene, anche se le mie cure e la mia attenzione sono state per papà. Ho temuto di perderlo per tutta la vita e volevo rimanesse con voi il più possibile, nonostante fosse ammalato. Il dolore, le paure, le corse in ospedale, i brutti responsi li ho tenuti tutti per me, volevo viveste di tutto ciò che tuo padre poteva darvi di bello ed era tanto.”

Fui io a rassicurarla, stringendola a me, e spero tanto che lei abbia letto in quell’ultimo sguardo, che è intercorso tra di noi, quanto mi spaventasse la vita senza di lei.

A lei, io e mio fratello dovevamo l’esempio di una famiglia unita, la gioia e la spensieratezza vissute negli anni.

Tutto questo grazie alla sua forza e all’amore per mio padre. Passarono pochi giorni e se ne andò.

 

In copertina: Nina Chanel Abney (Chicago 1982), «Ivy e il Bidello a Gennaio – Ivy and the Janitor in January», 2009, cm. 137×152, acrilico su tela.

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