La 22^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”prosegue con il quinto capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
CAPITOLO 5°
Montecreto era un paese a dimensione d’uomo, si percorreva con una passeggiata e i fatti che in una città, passano inosservati, lì diventavano argomenti su cui discutere.
Adesso, parlandone, ritornano alla memoria avvenimenti, volti, e mi accorgo che le nostre amicizie erano solo maschili.
Avevamo dei legami che non si possono definire tali perché le conoscenze erano relative e la nostra età richiedeva leggerezza e ironia.
Cominciavamo ad esplorare i cambiamenti del nostro corpo ed avevamo una volontà nuova di piacere a chi ci interessava.
A quei tempi risale il mio fidanzamento con Andrea, un giovane dentista da mia madre considerato subito non adatto a me.
I fatti, come nella maggior parte dei casi, le diedero ragione. Mi deluse e l’unica positività di quel rapporto fu l’amore per l’equitazione. I dava fastidio e rabbia dover riconoscere come mia madre avesse sempre ragione. Era l’età delle contraddizioni. Il ruolo era stravolto dalla competizione che si vive tra donna e donna. Lei aveva avuto fortuna, pensavo, ma non valutavo il costo di quell’amore ormai vecchio e saldo per quanto era stato messo alla prova dalla vita.
Imparai che non è difficile trovare la persona giusta ma riuscire a mantenere integro e vivo il sentimento si, quella è la magia.
A quell’età non si ha ancora chiarezza dentro di se, a livello inconscio, si cerca un uomo come il padre, o diametralmente opposto.
Quello fu il periodo, per me e mia cugina, delle farfalle nello stomaco, delle attenzioni ai nostri vestiti, ai nostri gesti divenuti meno infantili e più misurati. Mi faceva rabbia quando arrossivo di fronte a qualche ragazzo che mi interessava, ma poi ci pensava mamma a ristabilire le distanze. Sicuramente riportarmi con i piedi per terra era un suo fare protettivo nei miei riguardi, dettato dall’esperienza e arricchito dalle battaglie che aveva combattuto con la vita di mio padre per strapparlo alla morte.
Le nostre storie, però, non impensierivano i nostri familiari. Sapevano bene che erano solo amicizie e simpatie, ben lontani dai rapporti che cambiano una vita.
Divertirsi era la parola d’ordine. Vivevamo con spensieratezza quelle vacanze, per noi sempre brevi. Cristina era la figlia del fratello preferito del mio Papà. tra di loro c’era un legame tanto saldo da portare l’uno a fidarsi ciecamente dell’altro, soprattutto quando papà si assentava per i ricorrenti ricoveri.
Insieme curavano il giardino, e lo zio, quasi naturalmente, si sostituiva a papà nelle attività che lui non poteva fare a causa della malattia.
Io e Cristina, tempo fa, ne parlavamo.
«Roberta, mi diceva, ti ricordi quell’episodio, accaduto quando entrammo in quel negozio per chiedere il costo di un capo in esposizione e, apparentemente, senza motivo alcuno, cominciammo a ridere in modo irrefrenabile, mettendo in imbarazzo il negoziante che non capiva il motivo di tanta ilarità?»
«Come potrei dimenticarlo, risposi, non ci è più capitato di ridere così tanto e così spensieratamente.»
«Perché, secondo te?»
«Perché, continuai, l’età non è più quella, siamo adulte, abbiamo affrontato i veri problemi della vita e la nostra famiglia non è più la stessa; abbiamo perso lungo la strada tanti pezzi.»
«Ci andavamo a cacciare, riprese Roberta, in tante situazioni balorde che, talvolta, non sono diventate pericolose grazie alla fortuna nostra alleata.Ti ricordi quella volta in piscina? Mi spaventai davvero.»
«Si, rispose Roberta, per sfuggire ad un cane che ci seguiva silenziosamente, ci rifugiammo in una cabina spogliatoio della piscina. Avevamo sempre sentito dire: can che abbaia non morde, di conseguenza il suo silenzio ci aveva impensierito.Tutto finì bene e non ci ponemmo domande di riflessione, ma minimizzammo tutto dando la colpa dell’accaduto alla nostra giovane età».
Talvolta avvertivo la pericolosità e il rischio, ma era talmente tanta la voglia di vivere nuove emozioni, che mi faceva comodo venisse colpevolizzata la gioventù. Non è vero che i giovani non riflettono, sono accorti a non dimostrarlo per potere giustificare i propri errori.
Ero giovane ma non pensavo da bambina, c’era sofferenza in casa, e non c’è esperienza più grande che ti faccia crescere. Questo rapporto nato e coltivato a Montecreto si consolidò grazie anche alle frequentazioni familiari, divenute solide e grandi al punto che io e mia cugina siamo ancora unite come due sorelle.
La nostalgia, talvolta, ci riporta indietro e ci incontriamo. Facciamo un giro ma non più come due ragazze, bensì come due signore unite da un meraviglioso passato.
Non c’è stata un’altra Cristina nella mia vita, e questo mi conferma, ancora oggi, perché in lei io vedevo e vedo un carattere che ci accomuna, ci stringiamo nelle difficoltà e voliamo libere quando la bellezza visita la nostra vita.
Non ci furono sconvolgimenti nella mia vita quando persi papà. Vi stranizzerà sentirmelo dire, ma io e mio fratello avevamo vissuto talmente tante sue assenze che quella volta che non tornò, fu come se fosse partito per un lungo viaggio con la possibilità di non ritorno. Del resto ci aveva dato talmente tanto quando era con noi, che lo sentivamo vicino. Più di una volta, tornando a casa, dal vialetto lo avevo chiamato, quel papà partito ma non perduto.
Fu più difficile perdere mamma, anche se il nostro rapporto non era stato molto forte e affettivo; alla fine lei rappresentava tutto il mio mondo d’origine e con lei lo perdevo.
Di Lei ho scolpita negli occhi la sua immagine, seduta su una sedia in attesa dell’ambulanza. Un rapporto tra madre e figlia non può comportare l’imbarazzo, invece lo eravamo. Forse, se lo avessi capito prima, avrei tentato un approccio diverso con lei. Spiavo i suoi gesti per poter superare la barriera che ci divideva, ma lei guardava solo, con gran rimpianto negli occhi, la sua bella casa e riuscì a dirmi una parola, che significava tanto per lei.
«Pensami».
Capii allora quanto, con una sola parola, si possa dire molto.
Non le risposi, ma lei non seppe mai, da allora, quanto l’ho pensata, stanca di combattere, forse con un desiderio, portato con se nella tomba: quello di essere amata come io avevo amato mio padre.
L’amore per mio padre era istintivo, naturale, gli occhi parlavano anche se la bocca taceva.
Era un amore amplificato dall’ammirazione per questo padre malato nel corpo ma vulcanico, creativo e fiero di me.
L’amore per mia madre era più conflittuale, come succede nella maggior parte dei casi.
Tutti lo danno per scontato perché con la madre si vive in simbiosi per nove mesi, invece è una amore più difficile e da costruire giorno per giorno.
L’amore per mio padre mi faceva sentire libera, perché lui sapeva di potermi rendere felice solo in quel modo.
Mia madre era, invece, possessiva e non la giustificavo, anche se, a cose avvenute, ho dovuto riconoscere che aveva quasi sempre ragione.
Era una donna pratica e ho capito dopo che nella nostra situazione familiare, la sua praticità non solo era necessaria ma salvifica per noi figli.
Il suo controllo, i suoi brevi commenti, mi urtavano e mi facevano rimanere alla superficie delle cose.
Oggi, dopo tanta vita, considero, che se mi fossi soffermata a riflettere, avrei capito come proprio quello che di lei mi infastidiva era stata la medicina necessaria a curare tutta la nostra famiglia, mantenendola unita e sana.
Era stata protettiva nei confronti innanzitutto di mio padre e, poi, nei nostri.
Non l’ho mai sentita lamentare e, sicuramente di stanchezza ne avrà avuta, prendendosi cura di tutto e di tutti.
Talvolta, quando sentivo in me montare la rabbia, mi dicevo: «Ma si, Roberta, lascia che dica, fregatene». Tentavo di far affiorare ciò che di lei mi infastidiva, per difendermi e non provare dolore quando non mi dava ciò che volevo, e di cui avevo bisogno. Volevo essere capita prima come donna e poi come figlia. L’avrei voluta ringraziare, questo sì, per la dedizione a mio padre, per la generosità con cui si era privata, anche se volontariamente, di spazi, di vacanze, della cura che ogni donna ha di sé. Non so se senza di lei mio padre avrebbe avuto tutta quella voglia di non arrendersi, non smarrire il senso della vita, della famiglia, e vivere solo l’egoismo della malattia, coltivando la paura. Ma odiarla mai. Non riuscivo a farlo e questo perché in fondo l’amavo, come potevo e, la stimavo soprattutto.
Lei non era una donna colta, in senso scolastico, ma aveva una cultura forse più importante, sicuramente la più necessaria per affrontare la vita e le sue difficoltà.
Oggi, se potessi tornare indietro, vorrei recuperare gli abbracci non dati, i grazie non detti, i ti voglio bene desiderati che l’avrebbero resa più felice.
Era anche una donna di buon senso e, in un certo senso moderna.
Era protettiva e sempre pronta a spegnere i fuochi che i nostri giovani anni infiammavano.
Un giorno la sentii discutere con mia cognata: «Che c’è Annamaria, ti vedo triste e pensosa, cosa succede? Vuoi parlarne? Non come con una suocera ma come una sorella. Comprendimi, non rifiuto il mio ruolo ma semplicemente siamo innanzitutto due donne, possiamo anche avere problemi comuni e confrontarci ci può aiutare a risolverli.»
Indubbiamente aveva toccato le corde giuste che resero mia cognata disponibile a fidarsi, e le rispose: «Mi dispiace e mi rende triste l’atteggiamento di Carlo verso i miei interessi, ad esempio il ballo.Come ben sai mi pace molto.Certamente è tuo figlio ma è così».
Era un momento delicato, lo capii dal tono titubante delle parole di mia cognata Orianna, e quello era il momento in cui si giocava la possibilità di un dialogo tra loro.
Mia madre fugò i suoi dubbi continuando: «Il fatto che sia mio figlio non mi rende meno obiettiva, lo conosco bene e questo mi permette di considerarti credibile o meno.»
Mia cognata proseguì, rincuorata: «Mi sento anche in colpa talvolta perché è mio marito e lo amo, ma vorrei che lui capisse questa mia passione e mi piacerebbe anche condividerla con lui».
«Il fatto che sia tuo marito, aggiunse mia madre, non significa amare e ragionare con la stessa testa e lo stesso cuore.In amore bisogna che ognuno rinunci a un po’ di sé per andare incontro all’altro, se no non dura.Non preoccuparti, ci penso io».
Mia madre conosceva bene i suoi figli e sapeva quanto mio fratello fosse poco loquace.
Quando si parla poco è più difficile arrivare ai compromessi, soprattutto arrivarci con la convinzione del dialogo. A questo si aggiunga la “leggerezza” degli uomini nel considerare le esigenze di una donna. Per loro le sole priorità erano i ruoli di madre e di moglie e, da soli, erano appaganti. Ma mia madre comprendeva sua nuora, perché sicuramente aveva rinunciato a tanto per aiutare mio padre.
Comunque, avrebbe provato a parlare con Carlo, e un pomeriggio ascoltai, senza intervenire, il suo discorso.
«Carlo, diceva mia madre, non ti sembra che tua moglie faccia una vita molto monacale? È giovane, non può avere tra i suoi interessi solo la gestione della casa e il tuo accudimento, ti pare?»
«Ah sì, sono i suoi compiti, rispose mio fratello, talvolta usciamo con gli amici.»
«Tuoi o suoi?» ribadì mia madre.
Lui, alzando il tono di voce, «Cosa vuoi che interessi, l’importante è uscire!»
«Per te, osservò mia madre, ti sei chiesto se a lei va bene così?»
Mio fratello baldanzoso: «ma proprio tu dici così, esci solo per andare in clinica con papà?»
In quel momento avrei dovuto inserirmi nel discorso e riprendere mio fratello per la crudeltà della sua osservazione. Mi innervosì quella sua superficialità: quelle uscite erano forzate, erano non previste, erano un allontanare da noi il dolore, ma soprattutto, erano non lasciare solo mio padre in momenti in cui era necessario lottare con ogni mezzo per allontanare l’epilogo negativo della storia.
Non sentii più la voce di mia madre.Mamma non disse più nulla aveva deciso.
Tutti noi sapevamo che i suoi silenzi erano più eloquenti delle parole.Aveva scelto di aiutare Annamaria e così fece.
Da quella sera, l’accompagnava a ballare quando poteva, e la sua solidarietà le fece ottenere la stima di mia cognata. L’accompagnava anche se era stanca e successe tante volte a mia cognata di trovarla semi addormentata nell’angolino dove si sedeva ad aspettarla, dove nessuno poteva notarla per non mettere in imbarazzo sua nuora.
Se ci penso, mia madre è stata una grande lottatrice, nulla di quello che aveva le era stato dato in regalo. Aveva una grande forza di volontà, sapeva di non poter cedere perché farlo avrebbe avuto un costo troppo alto per i suoi figli. E pur avendo un Ego molto grande, lo mise a tacere.
Mia madre mi mise al mondo a 40 anni e, forse, questa maternità in età avanzata la rese una madre più consapevole.
I proverbi erano il suo forte.
Tutti ne conosciamo, ma per lei erano massime di vita, la saggezza dei popoli, li definiva.
Io spesso, da impulsiva, tornavo a casa e le raccontavo di nuove conoscenze, tessendone le lodi.
«Mamma ho conosciuto un ragazzo eccezionale, parla bene, è intelligente.»
Lei tagliava corto con la sua sentenza/proverbio: «Roberta sarà sicuramente come dici tu ma, ricordati, chi non sa fingere non sa regnare.»