L’undicesima puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” continua con il secondo capitolo del romanzo “Silenzi’ d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.
II° capitolo
Dissi a mia madre che sarei rimasta alcuni giorni e lei, come se aspettasse quella notizia, tornò a parlare, coinvolta dal suo passato: «Emma era la maggiore delle mie sorelle ed era già sposata con Lorenzo. Ti ricordi di tuo cugino? Filippo, crescendo dimostrava di apprezzare molto la compagnia degli altri bambini; a scuola le sue materie preferite erano lo sport e l’arte. Era ubbidiente ma non amava eccessivamente stare sui libri, ogni occasione era buona per andare a giocare a calcio con i suoi amici.Era molto legato anche a me quel bambino, nonostante lo sgridassi se era necessario. Era il primo legame di cui avessi consapevolezza e, talvolta, ci trovavamo a litigare per poterlo accontentare».
Continuai dicendo di ricordare che zio Lorenzo aveva proiettato su Filippo tutte le aspirazioni irrealizzate della sua vita e vi vedeva un futuro professionista o un politico.
Mamma Mariù comprese, da subito, che suo nipote aveva un’anima artistica e questa sua convinzione fu confermata il giorno che Filippo espresse la volontà di frequentare il Conservatorio.
È d’obbligo dire che a quei tempi il mondo dell’arte era considerato poco affidabile, la sua precarietà non garantiva la sicurezza e la possibilità di poter avere un futuro sicuro. Erano traguardi mitizzati dai mass media, ai quali i giovani guardavano quasi con inconfessabile invidia, ritenendo fortunati coloro che riuscivano a farne parte.
Ma, per fortuna, nulla di irreparabile, dato che tutto finiva lì, in un inconfessato desiderio di evasione da una realtà che talvolta stringeva troppo i suoi lacci per contenere la prorompente vitalità.
Emma era perplessa e combattuta perché esaudire il desiderio di suo figlio significava vederlo allontanare da casa, aiutarlo a credere in un futuro che avrebbe potuto non dargli quello che sperava e, soprattutto, non garantirglielo.
Comunque, nonostante la convinta opposizione di suo marito, Emma lo appoggiò perché riteneva giusto che Filippo provasse a realizzare il suo sogno. Forse Lei a qualche sogno aveva dovuto dire addio. Gli occhi di mia madre si illuminarono mentre diceva: «Filippo era molto affettuoso, spesso mi veniva alle spalle, mi racchiudeva il viso con le sue mani e mi baciava, sapendo che dopo avrebbe potuto chiedermi tutto e che lo avrebbe ottenuto.
Gli volevo così bene che ero tornata per lui a essere studente; stavo ore a spiegargli le lezioni, a fargliele ripetere per non farlo sgridare dai suoi genitori.
In uno di quei momenti gli dissi di riflettere perché la sua scelta comportava anni di studio e di rinunce, un’assoluta dedizione e pazienza, ciò che si imparava andava ogni giorno perfezionato, l’esercizio era lo strumento di crescita in quel lavoro e, come tutte le scelte, richiedeva anche una buona dose di fortuna.
Lo guardai fisso negli occhi e prima che parlasse avevo già capito che era pronto a tutto pur di diventare un ottimo musicista.
Mi inteneriva quell’assolutismo tipico della sua età che credeva tutto possibile, senza lasciarsi demotivare o scoraggiare dai suggerimenti degli adulti: solo da giovani si può pensare così perché si crede di avere il mondo tra le mani.
Ero preoccupata e capivo Emma, ma mi piaceva la sua determinazione di Filippo e lo appoggiai. Era il primo nipote della famiglia e tutti, nonni e zie, lo guardavamo come una preziosità, come l’incarnazione di un miracolo che aveva regalato a tutti noi la voglia di vivere in un tempo che forse non era più il nostro, di metterci ancora alla prova».
Quella sera ci fermammo e, prendendo sottobraccio mia madre salimmo al secondo piano. Portai la valigia, non ancora disfatta. Adesso l’avrei aperta con uno stato d’animo diverso da quello con cui l’avevo fatta. Aiutai mia madre a svestirsi, la ritrovai in tanti gesti che, durante la lontananza, me l’avevano ricordata: si pulì il viso, si stese un velo di crema per la notte e si spazzolò i capelli.
Una caratteristica delle case siciliane è quella di avere dei balconi ampi, letteralmente vissuti dalle donne. Vi stendono i panni, vi coltivano i fiori, si affacciano per conversare con chi sta di fronte e la sera si siedono a prendere il fresco. Io e mia madre tornammo a fare dopo tanti anni le stesse cose.
La mente riposava mentre gli occhi guardavano quell’ultimo squarcio di vita che conclude una giornata.
Quando gli occhi di mia madre faticarono a rimanere aperti, ci alzammo e l’aiutai a mettersi a letto. L’abbracciai, esattamente come faceva lei con noi, e stavo allontanandomi per andare a dormire nella stanza accanto, quando mi sentii prendere la mano e dire: «Se vuoi, mi farebbe piacere tu dormissi qui».
Il sonno quella notte ci vide unite e, finalmente, serene. La mattina dopo fu lei ad aspettare il mio risveglio, sembrava animata da una forza nuova e se ne accorse anche il nostro lattaio che, tutte le mattine, portava il latte appena munto.
Sentivo che aveva ancora tanto da raccontare e non mi trovò impreparata quello che continuò a dirmi: «Anna di noi ragazze era la più viziata e se ne capisce il perché: aveva cominciato ad avere dei gusti ben precisi e si vestiva con capi più ricercati, ricevendo complimenti che stimolavano la sua civetteria. Mia madre cercava di controllare la sua grande espansività ma finiva sempre con l’accontentarla per non farla soffrire. Comprava riviste di moda, con caparbietà si faceva realizzare i modelli per i quali sceglieva le fantasie più marcate. I suoi capelli erano sempre in piega e guardandola nessuno avrebbe pensato a qualcosa di imperfetto in lei. I maschi, da bravi fratelli, cercavano di tenere sotto controllo le varie simpatie dichiarate riferiteci da amici e conoscenti. Emma e i miei fratelli vedevano nel suo comportamento una forma di provocazione che poteva dare modo a qualcuno, senza scrupoli, di approfittare dell’ingenuità di Anna; io, come donna prima e come sorella dopo, non condividevo questa posizione ed ero più permissiva di loro. Sapevo che era profondamente ingiusto negarle la possibilità di avere una vita affettiva come tutte le ragazze della sua età solo perché non riusciva a sentire e parlava un linguaggio non comune. Ero convinta che avrebbe trovato una persona in grado di amarla per le sue caratteristiche, limiti compresi. Per me l’amore era una medicina piuttosto che una malattia e gli attribuivo poteri immensi. Pensare diversamente equivaleva a renderla doppiamente invalida e sapevo che lei non lo avrebbe accettato. Mia madre era divisa tra la paura di vederla illusa, e quindi di vederla soffrire, e il dolore di vederla rimanere da sola. Non era isolandola che si potevano aggirare o evitare problemi ma aiutandola, senza farla sentire ‘diversa’. Ciò che sentivo era il contrario di quello che ritenevo giusto.
Questa consapevolezza mi dava da pensare e mi chiedevo come mai il cuore e la mente non la pensassero allo stesso modo. Non serviva porre la domanda a qualcuno perché avrebbero sorvolato e sarei rimasta più confusa. Solo il tempo poteva spiegare tanti dubbi che affollavano la mia mente. Nessuno sapeva che dentro di me avevo già deciso: qualunque persona fosse entrata nella mia vita avrebbe dovuto accettare anche la presenza di Anna accanto a noi. Lei era fragile e io dovevo proteggerla. Morì Giorgio, un fratello al quale Anna era legatissima e lei perse il sorriso. Anna rimase sempre più sola nel suo dolore non potendo neanche contare sul sostegno di nostra madre che, provata dal dolore e dall’età, cominciò a mostrare i segni di una demenza senile capace di portarla mentalmente lontana da tutti noi. Anna, oltre al sorriso, perse la voglia di mangiare e stava dimagrendo in maniera preoccupante; con Emma decidemmo di mandarla a trascorrere qualche settimana da Tiziana, sorella di mia madre e coetanea di Emma, che viveva in campagna e aveva una predilezione per noi nipoti. Avevamo tutti un debole per lei, la consideravamo un’amica più che una zia; la sua giovane età la faceva rapportare a noi con molta confidenza, ci capiva e tante volte si spingeva a perorare le nostre richieste con la mamma, la quale quasi sempre, finiva per cedere allo sbarramento di zia e nipoti. Per tanti anni era stata una nostra compagna di giochi, aveva cucito con pazienza i nostri costumi di carnevale, aveva sorretto nostra madre nei momenti difficili. È comprensibile, quindi, come la soluzione unica per aiutare Anna a distrarsi e recuperare la gioia di vivere ci sia sembrata quella di portarla da lei, convinte che il suo affetto unito al cambiamento d’aria l’avrebbero aiutata a recuperare le forze e ritornare a essere la ‘farfallina’ con tanta voglia di vivere. L’accompagnammo io, Filippo e Giovanni; quando ci salutammo, per tornare indietro, anche Giovanni la baciò. La cosa non mi preoccupò: in quel particolare momento, Anna aveva bisogno dell’affetto di tutti e lui era un amico speciale. La zia era una donna di indicibile bontà, molto legata alla mamma. Una sua fotografia in bianco e nero sul comò la ritraeva come una ragazza florida, i capelli neri, scuri pettinati a onde con l’aiuto di un ferro che ancora conservava e, tante volte, avevamo visto. Il vestito, casto, nascondeva il corpo e metteva in moto l’immaginazione di chi la guardava. In quelle foto c’era sempre un vezzo, nel suo caso era un ventaglio, anche quello gelosamente conservato. Talvolta avevo sentito parlare zia Tiziana e mia madre dell’oceano di acqua che separava le madri dai figli emigrati… Le avevamo viste fare il pane insieme, a quattro braccia o scambiarsi gli occhiali quando una delle due non vedeva più bene con i suoi. Altre volte mia madre porgeva alla sorella il suo fazzoletto per asciugarsi una lacrima furtiva di cui noi ragazze non sapevamo la causa. Furono un bell’esempio per me ed Emma e in futuro, in tante situazioni, ci trovammo a ricordare quel loro forte legame di affetto e solidarietà. La vita di entrambe le sorelle, Tiziana e Lia, fu un rosario recitato sempre insieme, ostinate nella convinzione che due sorelle debbano avere lo stesso cuore. Non si erano mai lamentate, per loro la vita non potesse essere sempre bella. Tiziana – continuò Mariù − dopo un lungo matrimonio, era rimasta vedova e sola, non poteva certo permettersi un’altra bocca da sfamare, vivendo solo di quello che produceva quel fazzoletto di terra attorno alla sua modesta casa, da lei reso calda e accogliente. L’affetto nutrito per Anna era grande e si prestò a venirci incontro senza lamentarsi o rimarcare la sua situazione non facile. Ma noi, che sapevamo le sue condizioni, tutte le settimane, incaricavamo Giovanni di recapitarle i nostri aiuti. Trascorse un mese e la casa sembrava vuota senza la solarità di Anna. Ci confortava il sapere che stava meglio. Infatti rientrò in tempo per partecipare ai preparativi per il mio matrimonio. Aveva ripreso colore e peso e, anche se in maniera più misurata, era tornata a sorridere».
I ricordi riaffioravano alla memoria di mia madre e vederla così coinvolta mi preoccupava. Fu provvidenziale la visita di una sua amica che, non sapendo del mio arrivo, era venuta a farle compagnia.
Ne approfittai per andare in farmacia a ritirare delle medicine. Era subito dopo la piazza, su una strada in salita. In paese le piazze non erano mai deserte, si finiva sempre per incontrare qualcuno, fermarsi e rispondere a domande talvolta invadenti. Ritornando, incontrai e salutai l’amica di mia madre, ringraziandola perché con la sua compagnia, la faceva sentire meno sola.
Mia madre mi raccontò che la sua amica, pochi anni dopo essersi sposata, era rimasta vedova del marito, morto in guerra. Mia madre mi aveva sempre raccontato delle vicende umane legate al periodo della Seconda guerra mondiale. Lei era giovane e ricordava le famiglie decimate, i campi quasi abbandonati. Il paese era abitato solo da donne e bambini. Gli uomini erano partiti: i capifamiglia si erano imbarcati per l’Africa dove la propaganda prometteva un lavoro sicuro.
I ragazzi in età di leva erano stati richiamati e altri si aggiungevano come volontari. Alcuni erano partiti poco più che ragazzi, destinati a diventare bersaglio del nemico. Ma poi perché erano nemici? Non ne conoscevano la ragione, sapevano solo che non dovevano cedere alla paura e difendere la Patria. Non c’era cibo.
Le mamme compravano al mercato nero le pagnotte e qualche caciotta per sfamare i più piccoli. Le notti erano illuminate a giorno dai razzi e il rumore delle sirene avrebbe inquietato il loro sonno per tutta la vita. Erano così stanche, divorate dalla paura che non avevano la forza di correre al rifugio dove tutti insieme si sentivano più forti.
I suoi ricordi divennero anche i miei quando riprese a parlare: «Nel 1945 era finita quella grande tragedia umana che si chiama guerra. Eravamo tutti reduci, la paura e il dolore erano stati ospiti di ogni casa, ognuno di noi aveva perso pezzi di cuore, di ragione e, nonostante tutto, ci dovevamo considerare fortunati.
Ognuno, tra fratelli e cognati, si assunse un compito e, nel rispetto dei tempi, mi sposai un trenta aprile del dopoguerra, esattamente nel mese di aprile del 1948.
Dopo il matrimonio andai a vivere a venti chilometri di distanza, nel paese di provenienza di mio marito, persona di ottima famiglia. Non si oppose in nessun modo al mio desiderio di portare, prima o poi, con me Anna. Mi seguì il mio volpino rosso, di nome Fido.
Un matrimonio ti sconvolge la vita, ti fa immedesimare in situazioni che gli altri ti hanno raccontato ma non sono mai come quando le vivi. La vita diventa più affollata, ti ritrovi tra mura che diventeranno vive per le tue emozioni, i tuoi pudori confessati e non, e i dolori ti daranno la misura del suo valore. Talvolta mi svegliavo nel cuore della notte, mi giravo verso mio marito e mi chiedevo: chi è quest’uomo? La mia vita è legata per sempre alla sua, ma io cosa conosco di lui? Talvolta parlavo con Emma di questi dubbi e lei, già sposata da tempo, mi diceva come l’amore sarebbe nato giorno dopo giorno e come s’impara ad amare.
Per mia madre ero la seconda delle sue ‘piccole donne’ che lasciava il nido e questa constatazione sicuramente la rese triste favorendo, forse, l’attecchire della demenza che ci preoccupava tanto.
Il giorno che tu ti sei sposata ho capito cosa aveva provato lei nel vedermi andar via, nonostante la consapevolezza di quanto fosse importante avere, come si diceva allora, una figlia ‘sistemata’. Altro concetto che non condividevo: matrimonio = sistemazione.
Come poteva coesistere questo connubio? Scegliere la persona con cui vivere la propria esistenza non poteva essere basato sulle sue possibilità economiche ma sul sentire, sul provare determinate emozioni, sensazioni, reciprocità. Tutte pensavamo che per noi sarebbe stato diverso, non sarebbe successo ma poi, il più delle volte, ciò ci accadeva.
Alla mia partenza da casa seguì quella di mio nipote Filippo il quale, contro la volontà di suo padre, s’incamminò per una strada che lo avrebbe portato lontano dal mondo degli altri ragazzi della sua età. Quella scelta gli avrebbe permesso di curare e dare spazio alle emozioni, ai sentimenti, di dare con il suo lavoro, a chi ascoltava, la sensazione che la musica dà, cioè quella di essere più vicini a Dio.
La musica da noi conosciuta era quella delle canzoni di tutti i giorni. Ci divertivamo a cantarle e sulle loro note ballavamo in coppia con altre ragazze. Quando si proiettavano i film, in piazza, noi ragazze andavamo con le sedie, ci sedevamo vicine e bastava guardarci per capire che la nostra mente era rapita dalla storia che ci narravano.
Io non credevo, come dicevano i grandi, che quello fosse un mondo di perdizione ma pensavo alla fortuna di quelle ragazze in grado di scegliere da sole la vita da condurre. Perdevamo di vista che quelle storie erano frutto dell’immaginazione di scrittori e registi, confezionate ad arte per farci sognare.
Amavo proprio per questo mio nipote, per questo suo essere più interessato all’interiorità che ne avrebbe fatto un uomo sentimentalmente di pregio e quindi più vicino anche all’universo femminile.
Anna, dopo la mia partenza, manifestò il desiderio di voler ritornare da Tiziana perché con lei si sentiva meno sola. Avevano una buona intesa e riuscivano a vivere con serenità, comunicando quasi ad istinto, senza doversi curare di nascondere o dimostrare niente a nessuno. Dalle nostre parti un vecchio detto recitava: «A ogni gioia segue sempre un dolore». Devo riconoscere che, nel mio caso, il detto fu rispettato in pieno.
Mia madre, pur non facendone cenno, accusò il colpo di vedere allontanare da sé contemporaneamente due figlie e un nipote.
Ho sempre pensato che, nella prima fase della malattia, capisse e si preoccupasse anche del futuro, non del suo ma di quello dei suoi figli. Da donna forte non ne fece mai parola con noi perché, come lei diceva sempre: “l’esempio è la migliore eredità che una madre può lasciare ai suoi figli“.
Per la prima volta sentivo parlare a lungo della nonna. La sentivo come una presenza importante, ci legava come madri e come donne. L’avrei sempre ricordata con l’affetto e il rispetto dovuti ad una donna coraggiosa ed esemplare. Per mia madre quella casa, senza Anna, era diventata silenziosa, la comunicazione che si avvale di parole, suoni, lettura, piano piano si era affievolita e sua madre impegnava il tempo lavorando a maglia.
La nonna non era mai stata molto loquace, ma non aver nessuno accanto la portava a pensare più che a parlare e a confrontarsi solo con sé stessa.
Tante volte fu quasi inevitabile chiedermi se qualcuna di noi, restandole accanto, avrebbe potuto evitare che accadesse il peggio.
In copertina, Carlo Maratta (Camerano 1625 – Roma 1713), “La Madonna del Rosario e Santi Domenicani”, 1695, in occasione della conclusione dei lavori di restauro della “Pala d’altare” dell’Oratorio di Santa Cita di Palermo.
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