«D’Arrigo viveva di letteratura come il teologo vive per le sacre scritture. La grande letteratura è fatta anche di questi uomini. È stato un dono inestimabile per la Sicilia avere avuto uno scrittore come lui, che ci ha consegnato “Horcynus Orca”, un capolavoro della letteratura di tutti i tempi»
di Andrea Giostra
Ciao Salvatore, benvenuto e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Salvatore scrittore e chi Salvatore nella sua quotidianità?
Ringrazio voi per il gentile invito. Mi presento come un dilettante nel senso “sciasciano” del termine, cioè di chi svolge un’attività per puro diletto e passione. Nella quotidianità sono un libraio il quale esercita la professione da un quarantennio e tra qualche mese andrà in pensione.
Qual è la tua formazione professionale? Ci racconti il percorso che ti ha portato a svolgere quello che fai oggi?
Ho cominciato a lavorare nel lontano 1979, nella libreria Ciuni di via Sciuti. Come accade spesso ho iniziato per caso. Sono stato fortunato perché ho avuto come maestro Lorenzo Macaluso, uno dei più valenti librai palermitani, il quale mi ha insegnato l’abc del mestiere. In quel tempo si imparava molto ascoltando chi aveva esperienza fatta sul campo, e lui era uno di questi. La trasmissione del sapere avveniva nella forma orale, non v’erano i ritrovati informatici di adesso. Ho imparato tanto anche dai clienti: via Sciuti era popolata da intellettuali, scrittori, insegnanti universitari e giornalisti. Ero un ragazzo di poca cultura pieno di complessi, mi sentivo inadeguato in quell’ambiente così esigente; l’atteggiamento di certi clienti a volte poteva essere crudele. Ho raccontato tutta questa epopea in due memoir: “La Città e i libri. Le avventure di un libraio” e in “Collezione privata. Scrittori, persone e libri” che ebbero buona accoglienza presso un certo pubblico.
Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito che amavi scrivere?
La passione c’è sempre stata, mi mancava però la consapevolezza di poter esordire. Nei primi anni della mia attività mi sono concentrato esclusivamente sull’apprendimento del difficile mestiere di libraio. La scrittura covava ma bisognava tenerla a bada. L’interesse per la scrittura è nato dall’osservazione; l’osservazione è una forma di letteratura, secondo me. Mi sono messo alla prova nel lontano 2006, allorquando pubblicai il mio primo libro Inchiesta in Sicilia, un omaggio alla letteratura di Elio Vittorini, scrittore che a quel tempo amavo molto e che continuo ad amare. Era un racconto autobiografico in cui parlavo anche del mio paese, Monreale: la letteratura dell’io, insomma. In quel libro ricordavo alcuni episodi della mia infanzia e della prima giovinezza, attraverso la figura di un maestro elementare che in treno raggiunge Messina e ad ogni fermata incontra qualcuno che lo turba o lo intriga. A quel titolo si affianco due anni dopo, 2008, La difficile indagine sentimentale, una sorta di ideale seguito, giocato su toni più cupi e introspettivi. Mi accorsi però che il risultato, al netto di qualche consenso critico, era al di sotto delle mie aspettative. Per otto anni non scrissi più nulla. Mi dedicai allo studio e a certe letture di critica, mia vera passione.
Ci parli del tuo nuovo libro scritto insieme a Mario Grasso, C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina? Come nasce, qual è il messaggio che vuoi che arrivi al lettore, quale la storia che ci racconti, senza ovviamente fare spoiler?
Questa conversazione con Mario Grasso, su Stefano D’Arrigo viene da lontano, diciamo dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso. A quel tempo infatti risale il mio interesse per la figura e l’opera di D’Arrigo e del suo capolavoro Horcynus Orca, un romanzo la cui stesura lo impegnò per circa un quarto di secolo. Mario Grasso è stato uno dei primi recensori e critici dell’Horcynus, diventando in seguito amico e confidente di D’Arrigo. Nel tempo ho avuto tante conversazioni con Grasso sull’opera dello scrittore di Alì Marina. Mi accorsi che era un peccato lasciarle cadere nel vuoto. Così, approfittando del centenario della nascita (1919-2019) ho chiesto a Grasso di fissare i suoi ricordi in un testo. Il libro è composto da tre sezioni: la nascita del poeta; il grande lavoro sull’Horcynus, la terza parte su l’uomo D’Arrigo. L’intervista è una sorta di risarcimento, verso il grande scrittore, il quale è stato pochissimo ricordato in occasione del centenario, e per me è scandaloso. Nemmeno la Sicilia letteraria si è accorta del centenario della nascita di uno dei suoi massimi letterati.
Chi sono i destinatari che avete immaginato mentre lo scrivevate?
I destinatari sono i lettori che amano indagare figure poco note di scrittori come lo fu D’Arrigo. Dopo la vampata del 1975, anno della pubblicazione di Horcynus Orca, lo scrittore di Alì Marina venne rimosso e considerato un caso limite della letteratura; un attaccabrighe presuntuoso e sprezzante, uomo dalla lingua salace. Egli aveva sì, un carattere sanguigno, ma era uno schermo, una corazza, per difendersi da un certo potere delle lettere, specialmente quello romano che faceva capo a Moravia, che aveva una concezione della letteratura opposta a quella di D’Arrigo. Egli viveva di letteratura come il teologo vive per le sacre scritture. La grande letteratura è fatta anche di questi uomini. È stato un dono inestimabile avere avuto uno scrittore come lui, che ci ha consegnato un capolavoro della letteratura di tutti i tempi.
Ci parli del tuo compagno di scrittura di quest’opera letteraria, Mario Grasso? Chi è nel mondo dell’arte dello scrivere e come lo hai conosciuto?
Mario Grasso è un letterato nato ad Acireale nel 1932, ma catanese di adozione. È critico letterario, giornalista, poeta e talent-scout. Da molti decenni lavora nell’editoria. Ha fondato riviste come “Lunarionuovo” e “La Gazzetta ufficiale dei dialetti” una casa editrice, Prova d’Autore, che dirige con la moglie Nives Levan. Studioso di poesia dialettale, vanta numerose collaborazioni a quotidiani e riviste. La nostra amicizia è nata in libreria in mezzo al vociare dei clienti, agli inizi degli anni ’90. Le sue discussioni sulla letteratura erano ricche di informazioni mai banali e avevano un punto di vista sempre originale, con rimandi ad altre discipline. Il nostro dialogo è poi proseguito nel tempo sotto altre forme. Nel 2006 mi ha fatto esordire come scrittore sotto le insegne della sua casa editrice, accompagnando il mio romanzo Inchiesta in Sicilia con una lusinghiera prefazione.
Una domanda difficile, Salvatore: perché i nostri lettori dovrebbero comprare C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online per acquistarlo.
Perché è un lavoro serio, ricco di informazioni su uno scrittore geniale, per nulla omologabile alla massa degli scrittori odierni che scrivono con velocità libri di dubbio valore. D’Arrigo non si piegò mai allo “star system” letterario, il suo libro fuori misura, torrenziale, di 1257 pagine, è la prova provata della sua genialità di artista solitario che scrive “il libro per il libro”. Un romanzo l’Horcynus, che racchiude nella sua pancia tanti piccoli romanzi; basti pensare che tra personaggi principali e secondari ve ne sono censiti più di trecento! È uno dei più grandi libri sul mare che siano mai stati concepiti, ma non solo questo; è anche una umanissima riflessione sui danni della guerra, e sulla morte. Un libro sulla Sicilia mitica di mitici pescatori tra Scilla e Cariddi. Ma è anche tante altre cose.
C’è qualcuno che vuoi ringraziare che ti ha aiutato a realizzare questa opera letteraria? Se sì, chi sono queste persone e perché le ringrazi pubblicamente?
Certo che sì. Per primo Mario Grasso, che ha accettato di sottoporsi al fuoco delle domande con slancio adolescenziale dall’alto dei suoi ottantotto anni! Stefano Lanuzza, anche lui tra i massimi esperti dell’opera di D’Arrigo; ha scritto una profonda ed articolata prefazione che arricchisce il nostro lavoro. La mia amica Laura Sciarra, preziosissima collaboratrice e paziente ordinatrice. Li ringrazio pubblicamente e vivamente, perché questo lavoro era difficile da portare a compimento con le mie sole forze. Il progetto viene da lontano e solo oggi vede la luce per la felice congiunzione di tante coincidenze. Non posso non ricordare, ringraziandoli, gli editori Daniele Anselmo e Luigi Di Salvo, che hanno creduto e scommesso in un testo obiettivamente non facile.
Nella tua attività letteraria hai pubblicato altri libri e romanzi. Ci racconti quali sono, di cosa trattano e quale l’ispirazione che li ha generati?
Ho esordito nel 2006 con Inchiesta in Sicilia. Un racconto su base autobiografica, ma con personaggi inventati. Quel lavoro ebbe un seguito nel 2008, La difficile indagine sentimentale, che indagava la mia adolescenza, le crisi, e tutto quello che poteva capitare ad un giovane nato nel 1956. Devo ammettere che il risultato fu al di sotto delle mie aspettative e così abbandonai per sempre la scrittura dell’io, dopo che ricevetti il severo rimprovero dal mio amico Vincenzo Consolo, uno degli ultimi grandi letterati italiani. Non mi sono mai applicato a creare l’intreccio, rispettare i tempi che il genere “romanzo” impone tassativamente. Nel 2016 ho pubblicato il memoir La Città e i libri. Avventure di un libraio, che ricordava il mio apprendistato nel mondo della libreria; il memoir inizia nel 1979 e si arresta al 1992. A quel titolo, nel 2017, se ne affiancò un altro, Collezione privata. Scrittori, persone e libri, un seguito con ricordi di persone e intellettuali conosciuti o frequentati. Infine, nel 2019, ho ricordato in Basco blu. Ricordo di Ubaldo Mirabelli, il mio incontro con un grande intellettuale cittadino, musicologo, critico d’Arte, un mito per molte generazioni di giovani. Diventammo inaspettatamente amici. Preziosi furono i suoi consigli sui vari aspetti della cultura. Questi tre titoli vogliono essere una testimonianza dall’interno di un mondo, quello della libreria, poco conosciuto dal grande pubblico.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito dell’arte dello scrivere diceva: «Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Difficile rispondere. Analizzerei caso per caso. Ricordo una affermazione di un critico americano, forse Edmund Wilson, ma non ci giurerei, il quale diceva in buona sostanza che secondo la sua esperienza esisterebbero almeno tre tipi di scrittori: quelli che sanno scrivere ma non hanno la storia giusta da raccontare; quelli che hanno la storia ma non la sanno scrivere, e infine la terza categoria, quelli che hanno la storia da raccontare e sanno anche scrivere. Ma questi ultimi sono davvero pochi. A volte di un libro ci può attrarre la storia ma meno la forma. Bisognerebbe essere nella mente del lettore in quei frangenti. È il nostro gusto momentaneo che crea il libro. A me è capitato spesso di rivalutare libri che avevo letto in cattività e di ridimensionarne altri che mi avevano quasi abbagliato. Nell’atto della lettura conta sempre in che stato psicologico ci trovavamo nel momento nel quale leggevamo. Questa è una legge di natura.
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?
L’affermazione di Proust è tanto profonda che mi astengo dal commentarla. Dirò solo che la lettura può essere un’arma a doppio taglio, può essere un veleno e un controveleno; da un lato ci fa fare dei bei viaggi fuori dal corpo fisico, ma dall’altro può sostituirsi alla vita reale e ciò è pericoloso: insomma la lettura può avere effetti “ipnotici”. La letteratura non può sostituire la realtà. Quanto a Proust, si riferiva a un mondo che oggi non esiste più. Il suo saggio è del 1905, cioè scritto più di cento anni fa. Tu sai benissimo che la lettura come atto ha riguardato e riguarda tutt’oggi una minoranza. In Italia si legge poco, e pochissimo in Sicilia. Le percentuali siciliane sono ferme agli anni ’60 del secolo scorso, cioè il 5% del totale nazionale, laddove in Lombardia siamo intorno al 40%! Comunque mi piace segnalare, a proposito dell’atto della lettura, una affermazione dello scrittore angloindiano Salman Rushdie, il quale ha detto che la “la lettura è l’incontro tra due sconosciuti”. Lettore e libro.
«Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Cosa ne pensi tu in proposito? Cosa legge il lettore in uno scritto? Quello che ha nella testa “chi lo ha scritto” oppure quello che gli appartiene e che altrimenti non vedrebbe?
Nell’atto della lettura agisce una sorta di automatico discernimento da parte del lettore che a volte può trasformarsi in coautore. I veri lettori sanno da subito individuare i punti di contatto con ciò che lo scrittore ha disposto sulla pagina, con quello che lui lettore “vede”. Lo scrittore gli potrà offrire le pagine più succulente, ma queste fin quando non verranno “cotte e mangiate” dal lettore coautore, rimarranno pur sempre dei segni grafici sulla pagina. È l’esperienza del lettore che determinerà il valore del libro, non il contrario. Qualsiasi libro di per sé è “un’opera morta”.
«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso sul metodo”, Leida, 1637). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto?
Sì, può essere anche una “conversazione” come sostiene Cartesio. Ma il filosofo parlava di “buoni libri”, e non sempre i lettori tengono in mano libri degni di essere letti. Ad ogni modo, la lettura è stata e sarà sempre una pratica imprescindibile della società. Anche se l’industria editoriale ha tragicamente trasformato i lettori in “consumatori” di libri e ciò non giova né al libro né tantomeno alla cultura in generale. I “buoni libri” invocati da Cartesio latitano, dobbiamo ritornare ai classici. Bisogna tener presente che oggi il libro è assediato da tanti nemici. Allo stesso modo lo è il lettore anche quello più integro, perché sente il canto avvelenato di certe sirene che lo vorrebbero fare spiaggiare verso altri lidi.
Nel gigantesco frontale del Teatro Massimo di Palermo c’è una grande scritta, voluta dall’allora potente Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile del Regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, che recita così: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». Tu cosa ne pensi di questa frase? Davvero l’arte e la bellezza servono a qualcosa in questa nostra società contemporanea tecnologica e social? E se sì, a cosa serve oggi l’arte secondo te, e l’arte dello scrivere in particolare?
La frase di Finocchiaro Aprile si può condividere, ma contestualizzandola poiché riflette un mondo e un modo di pensare che non esiste più. Invece oggi un discorso sulla bellezza ci porterebbe lontano. Comincerei col chiederti: quale bellezza? Quella del principe Miškin dell’Idiota di Dostoevskij cioè “la bellezza salverà il mondo?” O l’altra poniamo, del mecenate messinese Antonio Presti il quale sostiene che la bellezza può redimere e elevare persone che sono tagliate fuori dal sapere? Come vedi potrei continuare con un nutrito elenco. Intendiamoci, sono tutte posizioni rispettabili. Ma sospette. La verità è che spesso ci si trincera dietro parole “chiave” per schivare temi più complessi, come appunto il concetto di bellezza. Il tema del bello investe necessariamente l’arte. Mi chiedo: cosa c’entra la bellezza applicata a un cavallo impagliato messo a testa in giù in un grande stanzone spoglio alla Biennale di Venezia, visto tanti anni fa? Non so davvero risponderti. Tutto è confuso. I “social” e le nuove tecnologie si sono dati dei nuovi canoni di bellezza. Ma chi lo decide il canone? Presti? Sgarbi? Bonito Oliva? È un circolo perverso, e vizioso. Un tempo l’atto artistico era lungamente pensato. Flaubert per fare un esempio noto, impiegava settimane per scrivere una pagina. Ecco, la bellezza è il risultato di quella applicazione sulla pagina che ci ha lasciato lo scrittore francese. Oggi, mi dicono, che con un telefonino si può fare un “vero” film e in pochi giorni. Mi sembra una cosa lunare! Non so, mi sento inadeguato a risponderti, dovrei acquisire una mentalità diversa… vedere la bellezza anche dove non c’è per darti una risposta passabilmente sensata.
Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello che noi intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?
Sì, è il cane che si morde la coda, per usare una battuta abusata, ma efficace. Bisogna essere realisti: non si può pretendere da un ventenne di oggi chissà quale educazione estetica. Un ventenne di oggi non dà nulla in comune con un ragazzo che nel 1960 aveva vent’anni! Sono due mondi completamente inconciliabili. Forse noi che imputiamo ai “millennial” scarsa sensibilità verso il bello, avremmo bisogno di mettere a fuoco certi concetti, prima di brandirli come una clava sulla testa quasi sempre vuota di bellezza, dei recalcitranti ventenni d’oggi. Forse un “millennial” vedrà negli “influencer” i portatori di bellezza. Certo, poi ci sono le felici eccezioni.
Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi?
Compilare liste non è elegante, si corre il rischio di dimenticare nomi di peso, ma se proprio lo devo fare, ti dirò che alcuni dei miei autori preferiti hanno i piedi piantati nell’Ottocento. Una breve lista comprende Manzoni, Flaubert, Maupassant, Dickens, Proust, Woolf, Hugo… sono quelli che hanno modellato il mio gusto. A questi grandi nel tempo si è aggiunta una lunga fila di autori i cui nomi mi piace segnalare perché ognuno di loro ha agito in me, lasciando un segno indelebile: Gadda, Sciascia, D’Arrigo, Volponi, Bufalino, Consolo, Manganelli, Parise, Brancati, Arbasino, Vittorini, Bonaviri, Ceronetti, Flaiano, Borges, Joyce, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, Moravia, Salinger. Per la saggistica: Croce, Praz, Contini, Citati, Garboli, Sanguinetti, Calvino, Eco, Pedullà, Onofri, Fofi. I poeti: Montale, Quasimodo, Caproni… Vado di corsa e dimentico sicuramente scrittori di peso, ma lo spazio impone l’uso della ghigliottina. Questi scrittori sono stati compagni di viaggio nel mondo della lettura. Ancora oggi li rileggo con immutato interesse, ricavandone sempre nuove scoperte. Per la letteratura siciliana di oggi vorrei segnalare tre scrittori: Fulvio Abbate, Roberto Alajmo e Giorgio Vasta. E i critici letterari: Marcello Benfante, Salvatore Ferlita e Matteo Di Gesù.
Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere questa estate dicendoci il motivo del tuo consiglio.
Questa è la domanda delle cento pistole! Il primo libro che consiglierei è Madame Bovary di Gustave Flaubert, uno dei grandi testi della letteratura di tutti i tempi. Cosa dire: confesso tutta la mia inadeguatezza a parlarne, perché è un’opera perfetta che sfugge a qualsiasi catalogazione al di là della vicenda narrata: infatuazione, adulterio, ritratto spietato della vita di provincia ecc. Un caposaldo della letteratura; senza Madame Bovary non avremmo avuto né Proust né tantomeno Joyce, che gli sono debitori sul piano dello stile. Addirittura Proust scrisse un saggio sullo stile di Flaubert, e questo dice tutto. Moravia ebbe a dire, a proposito dello scrittore francese, che egli “con la sua mania di perfezione aveva ucciso il romanzo come genere”, osservazione acuta. Grande è la mia ammirazione per Elio Vittorini, quindi non posso non segnalare Conversazione in Sicilia, un testo di imperituro fascino che ci proietta nel ventre anche “psicoanalitico” di una Sicilia trasfigurata e mitica, povera, cupa e invernale, teatro della vicenda, del “nostos”, ricca di archetipe figure come il “gran lombardo” o la madre del protagonista Silvestro, Concezione, il cui ritratto di donna è tra i più alti, vividi e riusciti, di tutta la letteratura italiana. Per concludere, mi piace segnalare il memoir scritto da Roberto Alajmo, L’estate del ’78, edito da Sellerio nel 2018. Una dolorosa indagine-confessione sulla scomparsa della madre. Un addio non previsto, improvviso, che segnerà per sempre l’autore. Il tutto raccontato con rara perizia e pietosa grazia. Ma se lo guardiamo in filigrana, questo lavoro è anche il ritratto di una certa Palermo che non esiste più. L’opera narrativa più alta di Alajmo.
E tre film da vedere assolutamente? Perché proprio questi?
Segnalare tre film è più difficile di tre libri! Il cinema ha delle consonanze e delle assonanze con la letteratura. Inizierei con il sommo Federico Fellini e il suo magnifico Amarcord. Chi di noi non si è riconosciuto nella figura del protagonista Titta Biondi e in quel ricco repertorio di figure, ricordi e immagini legate al borgo nativo? I temi dell’adolescenza, le inquietudini, le solitudini, la scoperta del sesso, il lungo inverno con la spessa nebbia che tutto avvolge come in un sogno: tutta una materia che Fellini padroneggia con mirabile sapienza e accenti di vera commozione. Amarcord è il film più personale e intimo del regista riminese, un film che ha attraversato diverse generazioni di spettatori conservando quella sublime grazia che lo ha reso immortale. Altro regista che sento vicino al mio temperamento è Michelangelo Antonioni, il cui cinema attinge molto alla letteratura. Della sua notevole filmografia mi piace citare La Notte, un vero caposaldo del filone “esistenzialista”. Ambientato a Milano in pieno boom economico, racconta l’irrompere di una nuova classe economica, quella dei nuovi ricchi. La descrizione di certi ambienti sociali, la crisi della coppia, la noia, l’incomunicabilità, la città notturna, sono tutti temi introspettivi cari ad Antonioni, il quale sa governare con mano ferma una materia che tende continuamente a deformarsi. Penso che chiunque potrebbe riconoscersi nella coppia protagonista, Giovanni e Lidia. Il terzo film è una pellicola del geniale regista giapponese Yasujiro Ozu, Viaggio a Tokyo. Cosa dire di questo incantevole e al tempo stesso drammatico film? Una coppia di anziani genitori, Shukichi e Tomi, si recano a Tokyo a visitare i loro due figli. Ben presto però si accorgono che la città ha modificato i loro costumi, e la frenetica vita cittadina li ha resi cinici e distaccati affettivamente. Scontenti e delusi da questa amara sorpresa i due anziani ritornano a casa, ma durante il viaggio, Tomi accusa un grave malore costringendo tutta la famiglia a ritrovarsi unita intorno al suo capezzale. All’atteggiamento cinico dei figli farà da contraltare la bellissima soave giovane, Noriko, vedova del terzo figlio della coppia, morto durante l’ultima guerra. Sarà lei a prendersi cura del vecchio capofamiglia Shukichi, spiazzando tutti.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori?
Sto lavorando, molto lentamente, a qualcosa che ruota intorno a Tomasi di Lampedusa, ma non mi sento di precisarne la cornice. A fine anno uscirà una raccolta di interviste da me curate, con alcuni intellettuali cittadini su svariati temi: letteratura, storia, politica.
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire ai nostri lettori?
Vorrei concludere ringraziandoti per la squisita disponibilità che hai mostrato verso il nostro lavoro e mi permetto di farlo anche a nome di Mario Grasso, vero autore del libro. Ai lettori vorrei consigliare che leggere questo libro può far scattare l’interesse per affrontare l’Horcynus Orca, un capolavoro della letteratura di tutti i tempi, che può segnare la carriera di ogni lettore che si rispetti.
Salvatore Cangelosi
https://www.torridelventoedizioni.it/?s=cangelosi
Mario Grasso
https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Grasso
Link del libro:
www.torridelventoedizioni.it
Stefano D’Arrigo
https://www.treccani.it/enciclopedia/stefano-d-arrigo_(Dizionario-Biografico)
Andrea Giostra
https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/
https://andreagiostrafilm.blogspot.it
https://www.youtube.com/channel/UCJvCBdZmn_o9bWQA1IuD0Pg