“Siamo impegnati a fronteggiare l’emergenza della carenza di medici, una criticità che deriva da lontano: da una programmazione miope del numero di accesso alla facoltà di Medicina che non rispondeva alle reali esigenze del Paese”. Così si era espresso, lo scorso febbraio, il ministro della Salute Orazio Schillaci, intervenendo all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università Cattolica di Roma dove aveva annunciato che si sarebbe andati verso un ampliamento dei posti di medicina. “Nessuna innovazione tecnologica, per quanto indispensabile e necessaria, potrà mai sostituire la leva essenziale del nostro servizio sanitario nazionale: il capitale umano“ aveva concluso.
Ad oggi questo aumento è avvenuto anche all’Università degli Studi di Palermo, dove il rettore Massimo Midiri ha annunciato che dall’anno prossimo saranno disponibili ben 110 posti in più per iscriversi al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia (per un totale di 590 posti), corso che però – come nel resto d’Italia – continua a rimanere a numero chiuso.
Ciononostante, il problema della carenza di personale sanitario negli ospedali italiani permane. Lo dimostrano i dati forniti dall’Anaao Assomed, secondo i quali più la metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e 1 su 4 (26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e di alienazione, tanto che ne cominciano a risentire anche le stesse scuole di specializzazione. Risulta, infatti, una cospicua e pressoché completa adesione a quelle scuole di specialità in cui l’attività privata e ambulatoriale rientra tra gli sbocchi lavorativi, mentre vengono abbandonate o neppure prese in considerazione quelle prettamente “ospedaliere e pubbliche” che sono state protagoniste nella lotta pandemica. Prima tra tutte la medicina d’emergenza e urgenza (61% dei contratti statali non assegnati e abbandonati).
Sempre di meno e sempre più stremati sono proprio i medici del 118, che in Italia sono meno della metà di quelli necessari: attualmente sono circa 2.300 rispetto a un fabbisogno di 6.000 e molti continuano ad andare via. “Dall’ultima rilevazione ufficiale della Sisac – spiega Francesco Marino, segretario della Fimmg 118 – emerge che nel 2022, c’è stata una diminuzione di 300 medici e dall’inizio del 2023 a fine giugno ne sono andati via altrettanti. In tutta Italia siamo a meno del 50% delle necessità”.
A fronte di tutto ciò, la domanda a sorgere spontanea è sempre la stessa e in questi ultimi mesi l’abbiamo sentita reiterare più volte: perché non si aprono a tutti le facoltà di medicina e infermieristica? Perché, se il problema consiste solo in un insufficiente numero di personale sanitario, non si elimina per sempre il tanto disprezzato “numero chiuso”?
Perché “banalmente – spiega il presidente dell’Omceo Palermo, Toti Amato – le facoltà e le diverse università non sono attrezzate per poter sostenere un simile aumento del numero di studenti. E non ci si riferisce solo ai luoghi in cui si svolgono le lezioni, ma anche alle sale operatorie, ai laboratori e a tutti quei luoghi indispensabili per svolgere l’intero percorso formativo”.
“Ma trovare la soluzione a questo problema sarebbe altrettanto semplice: basterebbe che le università aprissero il loro mondo formativo – sia pratico che teorico – agli ospedali. Ciò però non avviene perché le università – che oggi si stanno mutando sempre più in aziende ospedaliere – perderebbero in qualche modo la loro leadership dovendo, in primis istaurare delle convenzioni con le strutture scelte e poi cedergli quella che a tutti gli effetti è forza lavoro gratis“.
Dunque lo stallo rimane e il Ministero della Salute si ritrova costretto a proporre delle soluzione alternative, come la possibilità di attingere a personale straniero o potenziare l’assistenza territoriale con “nuovi operatori con percorsi formativi più brevi così da poter essere immessi più velocemente nel servizio sanitario nazionale per supportare il lavoro infermieristico”.
A questo Amato risponde sostenendo che accorciare i percorsi formativi non è un’opzione. Occorre rimanere al passo con gli standard che l’Italia già adotta per “garantire una formazione uniforme in tutto il mondo”. Per il presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Palermo, infatti, il numero dei medici di cui dispone l’Italia non è affatto un problema ma piuttosto “dovremmo chiederci se questo sistema sanitario, così come è stato concepito nel 1978 – quando fu varata dal Governo Andreotti la legge che assorbì i debiti delle diverse mutue e istituì un sistema universale e illimitato di cure – vada ancora bene a distanza di quasi 50 anni. La verità è che abbiamo una visione troppo datata e dobbiamo imparare ad evolverci”.
“Incredibilmente, in Italia, il numero di medici per mille abitanti è superiore rispetto alla media europea“. Lo conferma anche uno studio pubblicato sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità. I numeri parlano chiaro: nel nostro Paese si contano 4,1 medici per 1000 abitanti. Un numero elevato, che determina l’Italia come il paese con la maggiore concentrazione di medici rispetto a Gran Bretagna, Norvegia e Svizzera. La preoccupazione subentra nel momento in cui si prevede che il 55% degli attuali medici andrà in pensione nell’arco dei prossimi 10 anni e se si continua di questo passo, non ci sarà nessuno a sostituirli.
Dunque non è tanto il numero di medici e infermieri a costituire un problema, ma “è il sistema che va cambiato – insiste Amato –. Per nostra sfortuna una simile riorganizzazione necessita di molti soldi, di cui l’Italia non dispone. Il nostro sistema sanitario ha gravi problemi di sostenibilità economica, paradossalmente, peggiorati anche dalle tecnologie all’avanguardia di cui dispongono molti ospedali. Celebre fu il caso di Giorgio Armani che, nell’agosto del 2003, regalò un’innovativa TAC all’ospedale di Pantelleria. Chissà se ci si è mai chiesti quanto sia costato all’isola – e non solo – il mantenimento di quell’attrezzatura. Con l’innovazione aumenta anche l’obsolescenza dei macchinari”.
“Con questo sistema i soldi non basteranno mai – lamenta Amato -. Per riuscire a continuare a dare a tutti, occorre dosare bene il denaro, dando la precedenza alle cose più importanti come il pronto intervento, che deve essere garantito a tutti, e l’assistenza all’interno degli ospedali“. “E’ inutile pretendere che ci siano più medici se poi non li si può mantenere. Chi li pagherà? Lo stesso sistema che ormai è praticamente al collasso?”.
“La sanità italiana continua essere un’eccellenza per come è concepita, ossia solidale: tutti, indipendentemente dal fatto di essere ricchi o poveri, possono accedere al servizio sanitario. Il modello di base è ottimo ma l’innovazione e il progresso non possono essere fermati” conclude il presidente.