L’indagine condotta dalla sezione di controllo della Corte dei conti per la Regione Siciliana non lascia dubbi: il pessimo rapporto tra accertamenti e riscossioni con mancati incassi è il cuore pulsante della crisi finanziaria dei Comuni nell’Isola. Secondo quanto emerso sarebbe stimata circa a un miliardo di euro la cifra che solo nel 2023 non sarebbe entrata nelle casse degli enti siciliani.
I giudici contabili hanno analizzato le informazioni caricate nella banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap) della Ragioneria generale dello Stato da 300 Comuni, gli altri 91 risultano inadempienti. Per quanto concerne le entrate calcolate al netto dei fondi perequativi, i Comuni siciliani registrano accertamenti in crescita da 533 euro pro capite nel 2021 a 556 euro pro capite nel 2022, collocandosi poco al di sotto della media nazionale (pari a 591 euro) con un tasso di crescita nel biennio del 4,3%. Il punto più critico riguarda le riscossioni, che pur crescendo del 4,9% tra il 2021 e il 2022, restano tra le peggiori a livello nazionale, passando da 298 euro pro capite a 312. Ciò determina un gap tra accertamenti e riscossioni che sale da 235 a 244 euro pro capite, molto superiore alla media nazionale di 158 e 159 euro pro capite.
I giudici contabili segnalano che nel 2023 si è determinato “un divario tra accertamenti e riscossioni pari a 966 milioni di mancato incasso, se i comuni siciliani raggiungessero la percentuale nazionale media di riscossione, potrebbero contare ogni anno su oltre 400 milioni di entrate in più“. Per la Corte dei conti “basta questo dato per comprendere come questo aspetto sia il cuore della crisi finanziaria degli enti locali siciliani e che ogni energia organizzativa, programmatoria, gestionale dovrebbe essere mirata all’obiettivo di far fronte a questo inammissibile divario“.
Il problema della riscossione ricade così inevitabilmente sul più ampio tema del predissesto e del dissesto dei Comuni nel Sud Italia e in particolar modo in Sicilia. Indicativo è il dato che riguarda i Comuni che non hanno approvato il bilancio consuntivo del 2023: ben 200 su 391.
Per provare a comprendere meglio il fenomeno ormai fin troppo diffuso del dissesto nei Comuni e indagare sulle motivazioni reali per cui le percentuali di riscossione sono così basse, ne abbiamo parlato con Mariella Calabrese, commercialista e revisore di tre Enti della Sicilia, partendo proprio dalle grosse crisi finanziarie che i Comuni del Sud tanno vivendo. Le cause? “Sono diverse. Ci sono degli elementi di natura endogena che determinando delle criticità finanziarie tali da portare un Ente in grave equilibrio finanziario, che ripetendosi nel tempo e diventando strutturale, porta alla crisi dell’Ente stesso e al dissesto“.
Tra questi elementi endogeni spiccano l’assenza di ragionieri e la mancata riscossione dei tributi.
“E’ un mestiere che non vuole fare più nessuno e l’assenza di responsabili dei servizi finanziari – ha spiegato Calabrese – genera all’interno del cuore dell’amministrazione un disordine contabile che porta anche a delle irregolarità. La contabilità degli Enti è cambiata con il decreto 118. Si parla di contabilità finanziaria potenziata, che non è una contabilità uguale a quella delle società private, ma ci stiamo avvicinando. I ragionieri sono scappati dagli uffici da quando c’è l’armonizzazione contabile“.
La scarsa capacità di riscossione “porta comunque a un ricorso continuo all’anticipazione di tesoreria. Chi redige un bilancio dovrebbe farlo partendo dalle entrate. Adesso gli Enti non hanno più gli elevati trasferimenti di una volta. Devono reggersi sulle proprio gambe e dunque dalle proprie entrate, cosa che nei territori del Sud Italia“.
Da questa si riflessione si giunge ad uno dei fattori chiave: l’aspetto culturale. “Non puoi costringere le persone che vivono in territori complessi, in condizioni di degrado sociale e indigenza a pagare. Vi sono poi persone che culturalmente non vogliono pagare: i cosiddetti “morosi seriali”, che pur avendo la capacità di poter pagare non lo fanno per principio, per cultura“.
Anche il modo in cui oggi vengono redatti i bilanci incidono, e non poco. “Si dovrebbe partire dalle entrate e invece si parte dalle spese. Dunque, si spende più delle possibilità di un bilancio comunale. Spesso si sovrastimato le entrate, quando in realtà il bilancio dovrebbe essere fatto in maniera congrua e possibile. Nel momento in cui si ha una scarsa stima dei residui attivi – ha aggiunto Calabrese – la legge impone che se hai una scarsa capacità di riscossione devi andare ad “ingessare” il bilancio, con un accantonamento cautelativo, che va a ingessare la spesa tanto quanto la tua scarsa capacità di riscossione“.
A questo ne consegue inevitabilmente un “pareggio di bilancio o molto spesso un disavanzo di amministrazione che deve essere riportato nel bilancio dell’anno successivo. Il disavanzo deve essere ripianato nel primo bilancio utile di previsione andando a ingessare la spesa per una quota di disavanzo, che va ricoperto in tre anni“. La scrittura del bilancio si complica ulteriormente considerando contenziosi e i trasferimenti regionali o statali.
La differenza non è solo tra Comuni del Sud e del Nord, ma anche tra Comuni più piccoli e più grandi, i quali appaiono in maggiore affanno. Il motivo? “Credo sia legato ai servizi. In un Comune più grande – spiega Calabrese – si presentano problemi e criticità maggiori. Gestire un bilancio di un Comune grande comporta un maggiore impegno e le problematiche sono maggiori rispetto a quelle di una città e un paese più contenuto. La vastità del territorio e la maggiore densità di popolazione genera più problemi, che poi sono uguali per tutti“. Anche in questo caso incide il fattore culturale: “In un Comune più piccolo ci si conosce tutti e il recupero e la riscossione è più facile, perché scatta anche il senso della vergogna“.
E dunque a quali cause può essere riconducibile il mancato pagamento dei tributi? Ad avere un peso decisivo sono i tempi a rilento dell’ Agenzia entrate e riscossione che “non fa attività coattiva e la gente si sente demotivata perché non viene pressata“. La soluzione sarebbe quella di ridurre al massimo i tempi legati agli accertamenti, cercando così di non “scoraggiare” il contribuente che si culla sulla lentezza legata alle tempistiche. “Nel giro di massimo due anni invece – spiega Calabrese evidenziando la sua esperienza – dovrebbe essere inviata l’ingiunzione di pagamento e invitare a pagare massimo nei due anni. Se il contribuente non paga bisognerebbe passare subito alla procedura della riscossione coattiva. Così si crea la cultura del pagamento e si forma il senso del dovere. I Comuni si reggono solo sulle proprie entrate e nel momento in cui non li incentivi a pagare è finita“.
Tra le mancate entrate quella della Tari è certamente tra le più critiche. Nel Sud Italia la riscossione si aggira intorno al 30% e il fatto di essere un tributo “total cost total recovery“, quindi tutto a carico dei contribuenti, non aiuta i bilanci dei Comuni, visto che tutto il non riscosso si trasferisce a carico dell’Ente, sommandosi così anche agli elevatissimi costi di gestione per lo smaltimento dei rifiuti.
Trovare e applicare delle soluzioni è possibile. “Ci vorrebbe intanto la formazione negli Enti. Ci vogliono giovani e risorse umane con una mentalità e una cultura diversa. Bisogna stimolare e formare per saper gestire i contribuenti“. A questo si aggiunge la possibilità di attuare un importante intervento statale, tenendo conto delle differenze in termini di servizi tra Nord e Sud del Paese, dalle divergenze territoriali a quelle culturali, o quella di applicare le condizioni offerte dallo statuto speciale, per le quali sembra mancare una reale volontà legislativa. Un’opportunità potrebbe invece giungere nel 2025 con l’entrata in vigore della contabilità Accrual, una contabilità economica patrimoniale, che dovrebbe garantire una maggiore trasparenza alla contabilità dell’Ente.