Dopo 27 anni dalla strage di via D’Amelio finalmente c’è una nuova svolta per la ricerca della verità. La recente notizia dell’indagine della procura di Messina che coinvolge due magistrati Carmelo Petralia e Anna Maria Palma (che gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino) ha l’effetto di un vero “terremoto” che farà discutere.
In attesa di conoscere i dettagli su questo accertamento tecnico irripetibile su 19 bobine audio che saranno analizzate domani – mercoledì 19 giugno – a Roma alla presenza degli avvocati delle parti, analizziamo alcuni dettagli ormai noti.
La sentenza Borsellino quater dell’anno scorso ha certificato il colossale depistaggio (“uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”) nelle indagini sulla strage del 19 luglio 1992. Oggi pertanto occorre soffermarsi su chi – tra gli uomini dello Stato – può aver diretto e orchestrato quell’inganno.
TALPE INSOSPETTABILI E TRADITORI.
Da 10 anni ormai è noto un particolare significativo: la presenza di almeno un traditore all’interno della cerchia stretta del giudice Borsellino.
Nell’interrogatorio del 14 luglio 2009, infatti, i giudici Alessandra Camassa e Massimo Russo – all’epoca giovani colleghi di Borsellino – hanno rivelato per la prima volta un dettaglio importante: “Ricordo – testimoniò la Camassa in aula – che il giudice Borsellino si alzò dalla sedia, si distese sul divano manifestando stanchezza e avvilimento, iniziò a lacrimare in modo evidente. E ci disse: ‘Non posso credere, non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire’. Io e il collega Massimo Russo siamo rimasti sorpresi. Ebbi la netta sensazione che quella notizia l’avesse appresa pochissimo tempo prima… Non ebbi la forza di chiedere a chi si riferisse e volli cambiare anzi argomento”.
Alla domanda del pm Nino di Matteo sulla tempistica di quel ricordo la Camassa lo ha collocato a fine giugno del ’92, orientativamente tra il 22 e il 25 giugno, sicuramente prima del 4 luglio: “Solo anni dopo capii che quel particolare poteva avere un interesse investigativo, ma di questo fatto ne parlammo in più occasioni con mio marito e con lo stesso Massimo Russo”.
Quest’ultimo ricorda di aver chiesto a Borsellino di come andavano le cose in Procura: «”Qui è un covo di vipere“, mi disse». Lo sfogo di Borsellino nasceva da alcune domande che Camassa e Russo gli avevano posto sull’esporsi troppo interessandosi alle indagini sulla strage di Capaci.
Il 25 giugno infatti Borsellino disse nel suo ultimo discorso pubblico alla Biblioteca comunale di Palermo: “In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone… (…) Questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone“.
Borsellino però non fu mai convocato dalla procura di Caltanissetta, retta allora da Giovanni Tinebra. Su di lui, ormai defunto, pesano gravi ombre: dalle accuse di Scarantino fino al coinvolgimento “irrituale” del “numero tre del Sisde Bruno Contrada di collaborare alle indagini” su via D’Amelio. Un’anomalia, quella della collaborazione dei Servizi segreti alle indagini della procura, espressamente vietata dalle norme.
Tinebra affidò poi ad Arnaldo La Barbera (ex capo della squadra mobile di Palermo, a libro paga del Sisde con il nome in codice Rutilius), “una task force investigativa, che avrà un ruolo determinante nella gestione dei tre falsi collaboratori di giustizia, Scarantino, Candura e Valenti“, si legge nella relazione conclusiva dell’inchiesta sul depistaggio di via D’Amelio, redatta dalla Commissione Antimafia dell’Ars.
IL ROS.
E poi ci sono i ricordi della moglie di Borsellino, Agnese, che riferisce in aula che il marito le disse: “Ho visto la mafia in diretta”, e che “il generale Subranni è punciutu“, cioè affiliato alla mafia: “Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo, senza svelarmi la fonte. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto male da avere avuto conati di vomito: per lui l’Arma dei carabinieri era intoccabile…”
Antonio Subranni era a capo del ROS nel ’92, e insieme a Mario Mori è stato condannato in 1° grado nel processo Trattativa a 12 anni di reclusione.
“Ricordo perfettamente – è la testimonianza di Agnese Borsellino – che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”.
LE NUOVE INDAGINI.
Al momento a processo ci sono tre poliziotti sotto accusa per il depistaggio: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Dovranno dimostrare di essere estranei al “taroccamento” di Scarantino, il falso pentito costruito a tavolino che sostiene di essere stato imboccato dai poliziotti e da alcuni pm ad autoaccusarsi della strage, pur essendo innocente.
Pochi giorni fa Scarantino ha ritrattato clamorosamente, escludendo i pm Di Matteo e Petralia dal depistaggio: “Il dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage”.
Ma per Fiammetta Borsellino “questi poliziotti non hanno agito da soli, ma sotto la direzione, il controllo e la supervisione di magistrati e di pubblici ministeri”. Tra i magistrati che hanno gestito Scarantino ci sono Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, oggi accusati di “calunnia aggravata”.
Già il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. “Contestualmente – si legge nella relazione ARS – la procura di Caltanissetta invia all’ufficio legale Mediaset di Milano un’ordinanza dove si chiede di eliminare tutto dai nastri e dai server. Anche se un tecnico disubbidiente di Milano, ma siciliano, sente che dietro quella richiesta c’è qualcosa che gli puzza e conserva una copia del servizio” del giornalista Angelo Mangano.
“Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?“, è una delle tredici domande poste da Fiammetta Borsellino.
Carmelo Petralia, attuale procuratore aggiunto di Catania, si è difeso pochi giorni fa parlando di “macelleria mediatica” e di “fango” in un’intervista del quotidiano La Sicilia.
Anna Maria Palma invece è avvocato generale di Palermo. In un’intervista di Salvo Palazzolo pubblicata su Repubblica lo scorso 19 luglio 2018, si è detta amareggiata per il clamore attorno al suo nome: «Come tutti desidero che sulla strage non rimangano ombre. Me lo chiedo anche io, molto spesso, cosa sia successo. Io non ho subito pressioni da nessuno. Ho operato sempre in maniera trasparente». E sul depistaggio precisò: «Ho maturato alcuni convincimenti, ulteriori precisazioni le fornirò nelle sedi competenti».
Nel curriculum della Palma un ruolo di capo di gabinetto alla presidenza del Senato retta dal berlusconiano Renato Schifani.
L’AGENDA ROSSA.
Infine, ma non meno importante, la misteriosa scomparsa dell’agenda rossa. Anche qui è un magistrato che bisognerebbe riascoltare: si tratta di Giuseppe Ayala, tra i primi ad arrivare in via D’Amelio.
Le sue numerose versioni sulla borsa contenente l‘agenda rossa di Paolo Borsellino sono considerate “contraddittorie” da Fiammetta Borsellino.
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