Che oggi il 25 aprile sia per tanti soltanto una data con il rosso sul calendario e nulla più è un dato di fatto. Che, però, in Sicilia questa ricorrenza stia un po’ stretta a prescindere dall’inevitabile oblio del tempo è questione diversa, ma storicamente vera. E infatti, la cosiddetta liberazione, nell’Isola, era avvenuta due anni prima del 1945, ovvero nella lontana primavera-estate del ’43, quando le fortezze volanti americane rasero al suolo molte città siciliane, seppellendo migliaia di persone, rimaste sotto le macerie dei bombardamenti Usa: un tributo di sangue e distruzione che la regione pagò per preparare l’invasione delle truppe Usa del 10 luglio di quello stesso anno.
Nello stesso tempo, la diplomazia faceva il suo corso e infatti veniva siglato un patto “d’onore” fra gli Americani e le famiglie mafiose, che spianò il terreno all’ingresso nell’Isola delle forze alleate (di chi?).
L’alleanza fra la mafia e i ‘liberatori’ d’oltreoceano è, d’altronde, acclarata dalla relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia, presentata alla Camera dei deputati nel febbraio del 1976, in cui si sottolinea “la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni […]”.
“Il gangster americano – si legge nel testo parlamentare – una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all’occupazione imminente le popolazioni locali”. Luciano venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra” […]. La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”.
La cosiddetta Operazione Husky, nome in codice dello sbarco americano in Sicilia, venne spianata ovviamente anche dai grappoli di bombe lanciati su Palermo e sulle altre città dagli aerei a stelle e strisce, i cui soldati vennero poi accolti da trionfatori nelle città siciliane martoriate dai bombardamenti.
Come ringraziamento per la collaborazione prestata, una manciata di sindaci dell’hinterland siciliano nell’immediato dopoguerra venne scelto fra ex boss mafiosi di ritorno e loro accoliti, che anni prima erano stati costretti ad abbandonare la Sicilia a causa della repressione antimafia attuata dal Fascismo e guidata dal “prefetto di ferro” Cesare Mori.
Questa è una delle tante pagine di storia “dimenticate” o messe in soffitta nel dopoguerra. Ma forse, oltre a ciò, occorrerebbe chiedersi a cosa serva oggi una festa che celebra la vittoria di una parte di italiani su un’altra parte. Per questo, sarebbe, forse, più opportuno chiudere i conti una volta per tutte con quel periodo storico contrassegnato da una guerra civile fra italiani di diverso colore politico, fascisti da un lato e antifascisti dall’altro e pensare a una festa di tutti, una festa di riconciliazione nazionale che unisca. Senza entrare nel merito di colpe e responsabilità delle due parti in guerra, ma al solo scopo di sottolineare che non è tutto oro quel che luccica, basterebbe citare la penna raffinata di Gianpaolo Pansa, che ha scritto pagine indelebili sui crimini efferati compiuti da bande partigiane in giro per l’Italia. Anche questi poco o nulla conosciuti ai più. Ma in Sicilia, ripetiamo, le cose andarono in modo diverso.
Dire, poi, che ancora oggi sussista un pericolo fascista o neofascista è una balla grossa quanto una casa che però torna periodicamente in auge in concomitanza con importanti eventi nazionali o internazionali: fra gennaio e febbraio di quest’anno, ad esempio, lo “spauracchio fascista” è tornato puntalmente di moda, guarda caso alla vigilia delle elezioni politiche, per poi squagliarsi (con altrettanta puntualità cronometrica) come neve al sole all’indomani del voto nazionale. Che poi l’inesistente “rischio neofascista” sia rimasto oggi l’unico collante di un centrosinistra che, a volte, trova in questo mantra una delle poche ragioni d’essere della propria esistenza (visto il vuoto cosmico dei propri programmi politici degli ultimi anni), beh… Anche questa è un’altra storia.