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La battaglia infinita delle “Streghe” di Palermo, quando i diritti diventano una chimera

martedì 6 Dicembre 2016

I temi non sono del tutto cambiati. Le lotte da portare avanti trovano ancora oggi i loro perni nell’aborto, nella discriminazione in casa e a lavoro, nella prostituzione. E le femministe di oggi non sono poi così diverse dalle femministe di ieri. A Palermo oggi, le une e le altre, combattono ancora sulle trincee della cultura, della discriminazione, della parità e delle differenze. Il 6 dicembre del 1975 il movimento femminista organizzava la prima manifestazione nazionale d’Italia. Non era la prima volta che le donne conquistavano le strade per opporsi alla cultura di massa con cartelli e cortei, ma era la prima volta che in una sola città erano convogliate le femministe di tutto il Paese. Succedeva perché sulla griglia c’era l’aborto da liberalizzare, perché non si trovava pace per il massacro del Circeo e per l’assalto che la polizia fece in una clinica abortista di Firenze. Poi c’era la condizione generale della donna, sfruttata doppiamente da quando le erano state aperte le porte del lavoro, c’era la diseguaglianza davanti ai figli prevista dal codice civile.

“Essere femminista oggi è estremamente importante, come lo è essere una femminista lesbica – spiega Daniela Tomasino, attivista per i diritti umani – in molti ritengono superato questo concetto ma in realtà il processo di autodeterminazione delle donne non è ancora compiutamente affermato. Aver ottenuto il diritto di voto non è il risultato che conclude il nostro lavoro: siamo fermi agli anni ’50 anche soltanto se guardiamo al senso di possesso che alcuni esercitano nella coppia, un fenomeno che porta spesso al femminicidio. Per questo e per molti altri diritti che escono dalla sfera della violenza definirsi femminista oggi è un obbligo morale da non dare per scontato”. Partendo dal diritto a una volontaria interruzione della gravidanza per finire con la maternità, ieri un dovere culturale e sociale e oggi una scelta, si passa inevitabilmente per la posizione della donna in ambito lavorativo. Qui e allargando la sfera delle possibilità si affrontano le contraddizioni interne in un movimento unico, nato non solo dalla politica, e che si sviluppa secondo la visione che i suoi stessi membri hanno della donna. Alcune femministe escluderebbero gli uomini dai cortei e dalle manifestazioni mentre altre ritengono che sia una forma di violenza, di fatto l’uomo viene intrappolato in un ruolo.

Il sex working qui è un tema cardine: la prostituzione è vista sia come risultato del più crudele maschilismo che come massima espressione della libertà della donna, donna in questo caso, di disporre del proprio corpo. “Il Movimento si fa infatti portavoce di diritti che escono dalla sfera del femminismo – continua Tomasino – quelli delle donne trans, delle lesbiche, di chi è donna al di là delle definizioni comuni e stereotipate. Se il sex working è un secondo tema, il precariato è il terzo: la donna è più precaria, soprattutto al sud“. E i numeri parlano. “Le campagne di una femminista oggi incrociano tanti temi compresa la violenza sul lavoro, dove c’è una disparità sostanziale – sottolinea Valentina Morici dell’Udi – è più difficile per una donna trovare lavoro al sud e se lo trova il salario è inferiore. Ma una delle battaglie che stiamo combattendo è quella per andare oltre il genere, anche sulla carta d’identità”.  Infatti il Movimento oggi è forse più sociale che politico. “Politico è “fare cose”, compresa l’attivazione dei centri antiviolenza – commenta Daniela Tomasino – o anche la presentazione di un libro può diventare un fatto politico. E parlando di questo, a dimostrare che in Italia manca una politica seria che guardi all’importanza dei diritti, il governo Renzi per molto tempo non ha avuto un ministro delle Pari opportunità”.

Sul campo sin dagli anni Settanta – con una pausa nel mezzo – c’è Alessandra Notarbartolo. “Ci riunivamo nei garage o nelle aule, eravamo delle liceali che si raccontavano cose che a casa erano tabù – ricorda – ed era già politica il poterne parlare. In mezzo a quegli slogan, a quei cortei, ai collettivi io ho trovato me stessa, forse soprattutto a cambiare la mia vita è stata la frase Io sono mia. Ma era tutto molto spontaneo, compresa la presa di coscienza di appartenersi nel corpo e nell’anima”. Alessandra Notarbartolo ha dato vita una decina di anni fa al coordinamento antiviolenza dopo una pausa dal Movimento femminista. “Trovo che sia cambiato il punto di vista sulle differenze e in generale le priorità all’epoca erano altre. C’era la rivendicazione della parità mentre oggi il nuovo femminismo le differenze le invoca – spiega – oggi si lavora di più sulla pratica politica dell’accoglienza e della libertà culturale, si iniziano a scardinare i nodi del linguaggio e si viaggia verso un pieno riconoscimento della donna nella storia, nelle arti e nelle scienze, tutti mondi dai quali era stata cancellata”. A Palermo restano le eredità dell’Udi – Unione donne d’Italia e Anillo de Fuego, giovane collettivo. Insieme a loro altre associazioni e donne singole lavorano per la diffusione e l’informazione sul piano culturale e sociale. “Sul tavolo delle discussioni calde c’è ancora l’applicazione della legge 194: una legge che esiste ma non è garantita – continua Notarbartolo – è dovere di tutti trovare un modo per far fronte all’altissima obiezione di coscienza che c’è tra chi dovrebbe praticare aborti”. A Palermo l’80% del personale medico e paramedico è obiettore. “Non mancano comunque passi in avanti da fare anche nella rivalutazione dell’immagine della donna, sia in pubblicità che sui media, dove i linguaggi adoperati la rinchiudono nel ruolo di corpo nudo e accattivante”.

L’immagine è dello scorso 27 novembre, scattata durante una manifestazione per il contrasto alla violenza di genere.

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