Sono le schiave di oggi. Si tratta delle 7.500 donne vittime del caporalato in Sicilia, di cui 2.500 straniere, residenti principalmente nelle province di Catania, Siracusa e Ragusa, quelle a maggiore vocazione agricola. L’agricoltura tuttavia non è l’unico settore produttivo in cui il fenomeno è diffuso. Il caporalato è presente nel campo dell’edilizia, dei trasporti e della distribuzione. Di questo si è parlato oggi nel corso del convegno della Coldiretti, “Etica e legalità in campagna. La legge sul caporalato”, che si è tenuto stamani presso la sala Mattarella di Palazzo dei Normanni.
I rappresentanti nazionali e locali dell’associazione e gli agricoltori dell’Isola si sono confrontati sul tema, alla luce della recente normativa approvata dal Parlamento nell’ottobre scorso. L’incontro si è aperto con il ricordo di Paola Clemente, la bracciante deceduta nelle campagne di Andria, in provincia di Bari. Località che la donna raggiungeva ogni giorno dalla Calabria per lavorare nei campi in cambio di 27 euro al giorno. Come accade spesso nel nostro Paese è stata la sua morte, che ha commosso tutta l’Italia, ad accelerare l’iter di approvazione di una legge ad hoc. Una norma che ha contribuito a far arrestare i suoi carnefici.
La responsabile nazionale Coldiretti donna impresa, Lorella Ansaloni, quella regionale Tina Alfieri e il capo area gestione del personale, lavoro e relazioni sindacali dell’Associazione, Romano Magrini, hanno ribadito il loro impegno contro ogni forma di caporalato. Coldiretti, infatti, ha sostenuto l’adozione della legge e ha aderito alla Rete del lavoro agricolo di qualità, che esclude qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro.
Tutti hanno però posto il problema dell’indicazione del Paese d’origine nelle materie prime. E’ questo uno degli strumenti richiesti da tempo dalla Coldiretti per combattere il fenomeno del caporalato che si consuma negli altri Paesi e che è alla base della sleale concorrenza subita dai produttori italiani. Impossibile competere con chi paga i lavoratori 5 euro al giorno, in Marocco piuttosto che in Albania. Si tratta di una garanzia per l’impresa, per il lavoratore e per il consumatore, che in questo modo viene informato sulla provenienza del prodotto.
Nel suo intervento il comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Guido Volpe, ha descritto le diverse forme di caporalato. Non esiste, infatti, un’unica figura di caporale, ma diverse tipologie ognuna con ruoli e mansioni ben definite. C’è, ad esempio, il caporale lavoratore, detto anche “caponero”, che ha il compito di organizzare le squadre di lavoro. C’è il caporale tassista, che invece si occupa di portare i lavoratori sul campo. C’è l’aguzzino, quello che ricorre sistematicamente a violenze e minacce e sottrae i documenti agli operai per ricattarli. C’è addirittura il caporale venditore, ovvero colui che impone la vendita dei beni di prima necessità e che fornisce l’alloggio.
Un sistema di controllo che, facendo leva sul bisogno e sulla disperazione, annienta la libertà e la dignità delle persone. Le donne non sono le vittime principali del caporalato, ma quelle maggiormente sfruttate in alcuni settori produttivi e in alcuni contesti, perchè più abili e più assoggettabili alla volontà dei capi rispetto agli uomini. Molte vengono adoperate in alcuni ambiti specifici, come la raccolta delle fragole. In tutto il Paese sono circa 40.000 mila a fronte di circa 400.000 lavoratori.
Non mancano, purtroppo, casi di violenza sessuale, come è accaduto a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove una donna romena di 45 anni è stata per diverso tempo violentata dal suo datore di lavoro. Per quattro volte è rimasta incinta e per quattro volte ha dovuto abortire da sola. Tutti i giorni della settimana doveva lavorare senza sosta, mentre la notte doveva subire le violenze del padrone, fino a quando non ha trovato il coraggio di denunciare tutto alle forze dell’ordine.
La nuova legge ha reso più efficace il contrasto del fenomeno. Innanzitutto perché ha trasformato la violenza in un aggravante e non più in una condizione necessaria per la contestazione del reato, come previsto dalla normativa precedente. Oggi basta la constatazione della semplice intermediazione. Oltre al caporale viene punito anche il datore di lavoro. Questo, quindi, non potrà più rifugiarsi nel rifugio del “non potevo sapere”. La legge, inoltre, inasprisce le pene prevedendo la la detenzione da 1 a 6 anni, ma soprattutto la confisca dell’azienda, dei beni strumentali e delle disponibilità economiche. Queste vanno a confluire nel fondo antitratta dal quale le vittime possono attingere per i risarcimenti.
All’iniziativa ha partecipato anche il presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che nel maggio scorso nella strada tra Cesarò e San Fratello è stato oggetto di un agguato mafioso. Come ha detto lo stesso Antoci nei Nebrodi è stato rotto il giocattolo della gestione dei terreni pubblici e privati per l’ottenimento dei contributi europei in agricoltura. Un giocattolo che assicurava ai boss un giro d’affari esorbitante. Tutto a scapito degli agricoltori onesti dei Nebrodi che, sia perchè intimiditi dall’organizzazione sia per paura, non presentavano le istanze per ricevere i contributi.
E’ proprio agli imprenditori onesti che Antoci si è rivolto sostenendo che ognuno di loro deve ritagliarsi il proprio spazio di responsabilità. “La Sicilia – ha detto – non ha bisogno nè di simboli nè di eroi, ma di persone normali che fanno il proprio dovere. Oggi gli imprenditori onesti dei Nebrodi partecipano ai bandi europei. E’ una cosa che bisogna fare in tutta la Sicilia e in tutta Italia. Insieme”.