Spesso, parafrasando il film “Il nostro grosso grasso matrimonio greco” in cui il padre di Toula, la protagonista, interpretata dall’attrice Nia Vardalos, ha una spiegazione grecocentrica di tutto, abbiamo parlato de “Il nostro grosso grasso patrimonio siculo” e della nostra visione siculocentrica legata a delle ipotesi affascinanti e curiose che si sono fatte, via via, strada: da William Shakespeare originario di Messina, a Nina Siciliana, riconosciuta come la prima poetessa in volgare a scapito della fiorentina Compiuta Donzella; da il Siciliano, prima lingua letteraria italiana e come la più antica lingua romanza, fino alle certezze dateci dall’UNESCO che gli riconosce lo status di lingua madre, motivo per cui siamo descritti come bilingue.
Un nuovo tassello viene ad inserirsi nel nostro puzzle, quello che il jazz abbia origini siciliane e e il primo disco jazz inciso negli Stati Uniti da Nick la Rocca, originario di Salaparuta, cosa che sostengono alcuni storici e un signore della musica come Renzo Arbore. Prima di penetrare nella vita di Jack La Rocca e nel jazz, musica senza tempo, fatta di ribellione e di rottura, di pace e felicità, di improvvisazioni, proprio come la vita che non ha un giorno uguale all’altro, vogliamo aprire questa nostra riflessione con un aforisma di Ornette Coleman:
“Il jazz è l’unica musica in cui la stessa nota può essere suonata notte dopo notte, ma ogni volta in modo diverso“.
Il jazz ha origini siciliane
Nel documentario “Da Palermo a New Orleans… e fu subito Jazz“, prodotto da Renzo Arbore e scritto assieme a Riccardo Di Blasi, realizzato tra il capoluogo siciliano, Salaparuta, New Orleans e New York, si racconta la straordinaria storia della “Original Dixieland Jazz Band” che, guidata da Nick La Rocca, e composta da un gruppo di amici di origine siciliana, nel 1917 si ritrovò nella grande mela per incidere il primo disco al mondo di jazz.
Nick La Rocca
Alla fine dell’Ottocento, da Palermo per New Orleans, partiva il “Montebello”, un grande piroscafo che trasportava intere famiglie in cerca di futuro. Nel 1880 anche i La Rocca, Girolamo e il fratello Vito, partirono per l’America mentre Bartolomeo e le sorelle restarono a Salaparuta. Il primo, poco più che ventenne, nel paese natio, oltre a fare il ciabattino e suonare la cornetta nella banda, era stato caporale-trombettiere nei Bersaglieri del generale La Marmora. I due giovani trovarono lavoro presso un negozio di scarpe in Magazine Street e Girolamo ben presto divenne socio dell’ anziano proprietario che morì in un incidente stradale senza lasciare eredi. Un’ altra versione lo vede con la moglie, Vittoria Di Nino, di Poggioreale, sbarcato in Louisiana, abitare in Magazzine Street, la stessa del negozio di scarpe, di cui occuparono il primo piano e il piano terra, utilizzato come bottega di calzolaio e aggiustatutto, con un angolo per suonare la cornetta insieme ad altri siciliani d’America.
I La Rocca la musica l’avevano nel sangue e, infatti, oltre al più noto Nick, anche i fratelli, Rosario, Antonia e Maria, suonavano uno strumento. James Dominick, però, rispetto agli altri, sin da bambino amava esercitarsi per lunghe ore con lo strumento del padre che, contrariato dalla passione, per lui vacua, del figlio, sperava diventasse medico. La futura stella del jazz trascriveva sul pentagramma le sue prime composizioni e si narra che le suonasse e dedicasse alla cassiera del teatro che si trovava dinanzi a casa sua; ma, ubbidiente al genitore, che gli ricordava gli stenti che lo avevano portato nel Nuovo Mondo, lo ascoltò, relegando la musica a hobby e studiando prima alla St. Alphonsas Parochial School e, poi, alla Scuola Media di New Orleans.
Solo alla morte del padre, avvenuta nell’ottobre del 1904, poté dedicarsi anima e corpo, senza senza sensi di colpa, a quella che sarebbe stata la sua strada. Nel 1909, a New Orleans, James Dominick La Rocca, chiamato da tutti Nick La Rocca, formò la prima orchestra jazz, la Original Dixieland Jass Band diventata, poi, Original Dixiland Jazz Band, in cui suonavano un altro siciliano, Tony Sbarbaro e, anche, Eddie Edwards, Larry Shields, Henry Ragas. Si narra che il nome si trasformò in jazz perché a New York si divertivano a stracciare dai manifesti la “J” della parola “Jass” in modo da restare “ass” che vuol dire, volgarmente, “sedere“, per cui si leggeva “Original Dixieland Ass Band“, cioè “la band del sedere Original Dixieland“. I dirigenti della casa discografica scocciati dalla ridicolizzazione del loro lavoro decisero, prima di chiamarlo “Jasz e, poi, “Jazz” che non voleva dir nulla, cosa preferibile rispetto ai giochi di parole.
Il 26 febbraio 1917 incisero un 78 giri Original Dixieland – One step e Livery Stable Jazz, il primo disco al mondo nella storia del jazz, vendendo in poco tempo un milione e mezzo di copie e surclassando i record precedenti che appartenevano al tenore Enrico Caruso. In poche settimane il gruppo divenne la jazz band più pagata al mondo. Gli strumenti che li caratterizzavano erano: la cornetta, eredità sentimentale, il clarinetto, il trombone a coulisse, il pianoforte e la batteria. Nel 1919, dopo una tournée a New York, approdarono in Europa e per ben dieci settimane si fermarono a Londra e a Glasgow. La loro fama era, ormai, talmente grande che nel giugno dello stesso anno suonarono al cospetto di Giorgio V e della famiglia reale, per festeggiare la firma del trattato di Versailles che poneva fine alla prima Guerra Mondiale.
Agli inizi degli anni ’20, tornato in America, la trovò flagellata dal forte vento del proibizionismo che metteva al bando gli alcolici, i locali dove si faceva musica, considerando il jazz come la musica del diavolo, ispiratore di libertà di costumi, di divorzi, cose inaccettabili. Le performance diminuirono e lo fecero sprofondare, per dieci anni, in una terribile depressione che, nel 1925, gli fece sciogliere l’Original Dixieland Jazz Band.
Il 1936, sentendo alla radio lo swing, ferito nell’orgoglio visto che quello non era altro che il suo jass e lui il Cristoforo Colombo del jazz, decise di ritornare sulle scene. Riuniti i componenti del suo vecchio gruppo si ritrovarono ad avere di nuovo un bagno di popolarità, tanto che il clarinettista Benny Goodman, il più importante protagonista di questo nuovo genere, invitò Nick La Rocca alla radio e riconobbe pubblicamente di essere stato influenzato da lui e dall’Original Dixieland Jass Band. Dopo due anni, però, gli antichi contrasti riaffiorarono e, nel 1938, il gruppo si sciolse definitivamente.
Nello stesso anno Nick conobbe, in un pomeriggio domenicale, nella sala da ballo del “Capitol“, un battello da crociera che solcava il Mississippi, Ruth Dorothy Pitre, una ragazza di 20 anni, che sposò il 15 marzo del 1938 e da cui ebbe ben sei figli, tra i quali uno solo, James Dominik, continuò la carriera del padre. Il grande jazzista, che si spense nel 1961 a causa di una cardiopatia che era sua compagna da, ormai, molto tempo e riposa a New Orleans circondato da cognomi siculi come Spedale o Trapani, scrisse quelle che potremmo definire le prime hit del neonato jazz d’inizio Novecento, come Tiger Rag, incisa sul portone d’ingresso della casa in cui visse, e Clarinet Marmalade.
Negli ultimi anni della sua vita continuò a scrivere canzoni che dedicò alla moglie, continuando a proclamarsi l’inventore del jazz, scatenando così polemiche con i musicisti di colore, primo fra tutti Luis Armstrong, che consideravano quella musica una loro creatura. A proposito di ciò, però, a chi definisce il jazz come “musica nera“, Joe Maselli, direttore dell‘American-Italian Museum, in un documentario eloquente, già nel titolo, “Al tempo neri e siciliani stavano sempre insieme“, mostra il contributo della nostra isola e lo stesso fanno gli studi di Bruce Raeburn, responsabile dell’ Hoogan Jazz Archive della Tulane University, e del musicista e ricercatore Jack Stewart.
Nel 1960 Herry O. Brunn pubblicò “The story of the Original Dixieland Jazz Band“, il frutto di un lunghissimo lavoro durato 23 anni, sul protagonista del nostro racconto e il suo gruppo. Renzo Arbore, nelle varie occasioni in cui ha presentato il suo docufilm “Da Palermo a New Orleans… e fu subito Jazz” ha affermato: “L’origine siciliana del jazz è ancora molto poco conosciuta e avvolta nel mistero ed è difficile stabilire che cosa ci sia nella cultura siciliana che ha portato quei musicisti a creare un genere così innovativo. O forse tutto dipende dal fatto che, come ipotizza il jazzista americano Ben Sidran, se si dice che il blues è quella musica che ti fa sentire bene quando stai male, gli italiani sono da sempre maestri in questa arte”.
Un’opera che omaggia Nick La Rocca è “Sicily Jass – The world’s first man in jazz“, del 2015, di Michele Cinque, che tratteggia con completezza, equilibrio e poesia la sua vicenda umana ed artistica. Ambientato nei meravigliosi paesi fantasma del Belìce, abbandonati prima per l’emigrazione e, poi, a causa del terremoto, alternando testimonianze, filmati storici, la voce di La Rocca in un’intervista inedita, la narrazione simbolica di Mimmo Cuticchio coi suoi pupi, la colonna sonora firmata Salvatore Bonafede ed eseguita con la sua tromba da Roy Paci, racconta a tutti da dove è partito il jazz.
Non solo Nick La Rocca
Molti musicisti siciliani o di discendenza siciliana erano membri delle “Reliance bands” di Papa Jack Laine, ovvero George Vitale e tra questi: Giuseppe Alessandra, nato a Palermo nel 1865 e morto a New Orleans nel 1950, Lawrence Veca, Manuel e Leonce Mello, Nick La Rocca, Arnold “Deacon” Loyacano.
Molti altri suonavano in altre orchestre e gruppi, come Leon Rappolo (Roppolo), John Provenzano, Wingy Manone (Mannone), Sharkey Bonano (Joseph Bonanno), Louis Prima, Johnny Lala, Tony Schirò, John «Bud» Loyacano, Joe “Hook” Loyacano. Gli ultimi tre che erano Arbresh, discendenti degli albanesi scampati dall’invasione del loro paese da parte dei Turchi e fuggiti nel quindicesimo secolo in Sicilia, dove si stabilirono a Piana degli Albanesi, Contessa Entellina, Prizzi, Mezzojuso e Palazzo Adriano, conservarono la loro lingua e la loro religione come proprio carattere distintivo, anche, da emigrati all’interno della comunità siciliana di New Orleans.
Tony Schirò studiò la chitarra ed il banjo con il suo vicino di casa Johnny St. Cyr, uno dei famosi Hot Five di Louis Armstrong, e suonò con i fratelli Sal, Joe e Tony Margiotta e con Santo Pecora nella Triangle Band che aveva dipinto sulla grancassa della batteria la Trinacria siciliana. In periodi differenti diversi fratelli Loyacano lavorarono nella Halfway House Orchestra, che includeva anche il clarinettista Charlie Cordella (Cardella), il trombonista Angelo Palmisano e il clarinettista Leon Rappolo (originario di Salaparuta).
Salaparuta, quindi, non fu solo il paese originario di Nick La Rocca e di Leon Rappolo, ma anche di Louis Prima. Il nonno di quest’ultimo, emigrato nel 1876 a New Orleans, ebbe come terzogenito Anthony, padre di Louis, che sposò Angelina Caravella, nata ad Ustica, che fu l’ispiratrice della famosa “Angelina“, una delle canzoni di maggiore successo di Louis Prima assieme a “Ohi Marì“, “Just a gigolò” e “Sing, sing, sing” con cui Benny Goodman concluse il suo storico concerto alla Carnegie Hall nel 1938.
Tre sono, invece, le stelle di prima grandezza nate in Sicilia: Vito «Vido» Musso, primo saxtenore solista di grandi orchestre come quelle di Benny Goodman, Harry James, Gene Krupa e Stan Kenton, nato nel 1913 a Carini; Pete (Pietro) Rugolo, mitico arrangiatore dell’ orchestra di Stan Kenton, nato nel 1915 a San Piero Patti; George Wallington, grande pianista e compositore, il cui vero nome era Giacinto Figlia, nato nel 1924 a Palermo.
Altri siciliani, abitanti nel quartiere francese, come il clarinettista Tony Parenti, e il trombonista Santo Pecora (Pecoraro) suonarono con la banda italiana affiliata alla Chiesa Cattolica di Santa Maria in Chartres Street. Uno dei primi ingaggi importanti di Santo Pecora fu con il violinista Joe Fulco al Palace Theater in Dauphine Street, dove lavorò con il bassista Joe Maggio (arbresh), il batterista Emil Stein (ebreo) e il clarinettista Joseph Bovinetto (siciliano).
La lista è infinita e continua con il pianista Chick Corea, di madre messinese, il clarinettista sassofonista e compositore Jimmy Giuffrè, originario di Termini Imerese, il sassofonista Joe Lovano, originario di Alcàra Li Fusi, il chitarrista Joe Pass, il cui vero nome era Giuseppe Passalacqua, originario di Gualtieri Sicaminò, Frank Rosolino, primo trombone solista dell’ orchestra di Stan Kenton, originario di Partinico, il clarinettista Tony Scott, Anthony Sciacca, originario di Salemi, il violinista Joe Venuti, originario di Spadafora, Phil Zito, originario di Bisacquino.
Palermo capitale del Jazz
La nostra Sicilia continua ad essere la patria della Musica Jazz e fucina di talenti. Nel 1974 da un’idea del Maestro Ignazio Garsia nacque il The Brass Group, in uno scantinato di Via Duca della Verdura, cornice storica che ha accolto nomi del panorama mondiale, in cui si sono formati grandissimi musicisti grazie, anche, a un indimenticabile artista, Enzo Randisi, che ha reso Palermo “capitale del Jazz“.
In un alcuni capitoli di “Parlami di musica… e non andare via” di Valentina Frinchi, Qanat Edizioni, con la prefazione di Gigi Razete, si racconta dei bravissimi e geniali musicisti siciliani che hanno fatto e continuano a fare grande il jazz. I nomi da elencare sarebbero troppi e, proprio per non fare torto a nessuno, vi consigliamo di leggere questo libro che è una appassionante passeggiata alla scoperta di un’altra Palermo.
Il Presidente Nello Musumeci, all’incirca un mese fa, prima dell’arrivo del coronavirus, aveva annunciato, un Sicilia Jazz Festival, in perfetto stile Umbria Jazz, con un taglio internazionale, finanziato dalla Regione e organizzato in collaborazione con il Brass Group, i Conservatori e il Comune di Palermo. Un evento internazionale di, con e per la musica, dedicato al genere americano per cui, come vi abbiamo raccontato, fondamentali sono stati tantissimi musicisti siculo-americani e quel Nick La Rocca che ha inciso, repetita iuvant, il primo disco jazz.
Non sappiamo se questo evento sarà confermato, anche se siamo fiduciosi che tutto rientrerà presto nella normalità; comunque sia il seme del Festival del Jazz a Palermo, vivaio di talenti, come del resto tutta la Sicilia, è stato piantato e darà i suoi frutti. Bona tempora currunt, ripetiamolo come un Mantra, sapendo che moltissimo dipende da noi e dalla serietà con cui, rispettando delle semplicissime precauzioni, affronteremo la vita.