Lì sul palco ci parla di situazioni di vita che non noteremmo mai nella quotidianità, ma ci riconosciamo in esse e ridiamo, ridiamo a crepapelle delle nostre idiozie e isterismi, delle nuove mode e manie che perseguiamo come se seguissimo un copione balzano. Ridiamo di noi stessi attraverso lui, che puntualmente ci ricorda la nostra “isolitudine” di siciliani, la nostra “palermitanitudine” da palermitanissimo quale è. Eppure nell’intercalare recitato, tra una battuta cagnola e l’altra si sente la voce dell’attore professionista, profonda e ripulita da ogni variante dialettale. Ernesto Maria Ponte è un attore vero, che ha studiato e che guarda la fauna che lo circonda con occhio attento per poi riportare i nostri ritratti in scena e farci ridere di noi stessi, come se ci guardassimo allo specchio. Lo trovo disponibile al dialogo, riflessivo e un po’ provato dai lunghi mesi lontano dalle scene, dove però è ritornato con il suo solito stile, pronto a parlarci anche del periodo del lockdown in modo esilarante.
Cosa ti ha spinto a diventare attore?
«Quegli avvenimenti, quando a scuola si organizzavano le recite. Non erano i tempi in cui ci fossero i laboratori teatrali fatti da professionisti… Ci si lanciava. Poi ho proseguito con le recite della compagnia della parrocchia. Ho iniziato e non ho smesso più. La maggior parte del tempo della mia vita, se ci penso, l’ho dedicata a questa professione».
Ti facevi notare dai professori per le tue battute?
«No, veramente no. Non ero tra gli alunni che si volevano fare notare a tutti i costi… Anche perché non è che studiassi troppo».
Preferisci essere un umorista o un comico? O meglio, giocando con il tuo cognome, qual è il “Ponte” tra umorismo e comicità?
«Le due cose le separo così: sono un umorista quando scrivo i miei spettacoli, quando sono sul palco, sono un comico».
Cosa ti ha insegnato Gigi Proietti?
«Mi ha insegnato a seguire la mia strada. Non era lì pronto a farci ripetere ciò che facesse per imitazione. Diceva che un bravo insegnante forma l’allievo in base a troppi elementi su cui da solo deve tenere conto e che deve misurare. Misurarsi con la propria fisicità, per prima cosa. Eppure, quando sono sul palco ogni azione, ogni gesto che compio mi riportano a lui».
Durante il lockdown aspettavamo le dirette Facebook che facevi insieme alla tua compagna, Clelia Cucco, anche lei attrice. Ci portavate allegria. Com’è stato ritornare in scena? Il pubblico è forse diverso?
«In realtà ci sono stati giorni in cui non andavamo in diretta perché eravamo molto tristi, confrontandoci con una realtà che dava poco adito a speranze: sotto il profilo lavorativo, solo a marzo abbiamo perso dieci spettacoli, ad aprile, sette. Sono tornato in scena a luglio e non mi era mai capitato un periodo così lungo in cui non lavorassi. A luglio il pubblico era sempre lo stesso: percepivo la stessa atmosfera attorno a me. Ero cambiato io, come se il palcoscenico non fosse più la mia realtà, il mio habitat. Mi sono dovuto ripensare come attore, riabituare al mio lavoro».
Questa rubrica si ispira alla famosa trilogia di Amici miei, un tipo di commedia che oggi sarebbe irripetibile per tanti, troppi motivi. Quale dei cinque personaggi ti sarebbe piaciuto interpretare? Con quale dei cinque zingari senti di avere qualcosa in comune?
«Il Perozzi, il personaggio interpretato da Philippe Noiret. Era il giornalista che si separa dalla moglie, un tipo che ne combinava di tutti i colori con faccia tosta e distacco. Mi trovo in una condizione di vita simile, essendo un padre separato e avendo una nuova compagna. Poi il figlio del Perozzi, a differenza del padre, era severo e serioso sin da bambino. Be’, mi aspetto che un giorno i miei figli mi dicano: “Papà, ancora ‘u cretinu ha fari?”».