Meno di un’ora di tempo per definire l’arte del teatro: impresa ardua che nel testo di Pascal Rambert, in scena al Teatro Biondo di Palermo (sala Strehler), trova l’individuazione di alcuni punti incontrovertibili.
Luci accese a creare continuità tra la platea, il palco e anche il dietro le quinte, un’unico spazio in cui attore e spettatori saranno coinvolti in un dialogo atipico.
Lo spettacolo ha inizio proprio con la violata liturgia dei rituali scenici: Paolo Musio, efficace interprete e traduttore del testo di Rambert, entra sul palco senza preavviso con il suo compagno, un bellissimo levriero russo, a cui affiderà tormenti e speranze forse definitivamente infrante.
La lezione sul teatro, una confessione mediata tra interno ed esterno da sé, può avere inizio.
Parla a voce molto bassa, “bisogna costringerli a venire nel silenzio“. Una piéce come strumento educativo che, nell’epoca del virtuale e dell’urlo a tutti i costi, non può che rivelarsi indispensabile.
Si rivolge al cane l’attore e, di sicuro, parla a se stesso con la durezza e la disillusione accumulate in tanti anni di professione. La prima distinzione va fatta tra attori e mestieranti, due categorie completamente diverse. I primi, infatti, “fanno uscire il fumo dalle orecchie e le lacrime dagli occhi degli spettatori, i mestieranti non sanno farlo… ma anche gli attori, in fin dei conti, non sanno niente“.
Costruiti sempre sul presente, gli attori “dicono messa“, almeno quelli francesi, approdano sul palco per desiderio; i grandi attori lavorano nel silenzio, pesano le parole dentro di loro, “sulla bilancia del loro respiro“, cercano di scovare i segreti del teatro che hanno sognato.
E siccome la vita è teatro, e viceversa, ecco che quest’ultimo si nutre anche del bere, per mandar giù tutte le inutilità che lo inquinano e per godere, poiché quest’arte – così come la vita – reclama che bisogna godere.
Ogni perla di riflessione si nutre di lunghi momenti di silenzio in cui, secondo noi, si respira quella sacralità che solo il teatro, nell’hic et nunc che lo contraddistingue, può realizzare.
Ma in fin dei conti cos’è che cerca un attore sulla scena? Perché si sceglie questo mestiere che, a volte, maltratta i suoi figli?
Per Rambert ogni attore recita per allontanare l’abbandono, per aggiungere tempo alla vita che ci abbandona, per farsi ringraziare, per occuparsi “dell’essere”, per donare il sacro fuoco ai piedi dello spettatore. Un lavoro spesso ingrato quello dell’attore, dunque, che deve conservare verso se stesso gentilezza e modestia, ricordandosi sempre che “bisogna amare molto, non c’è nient’altro“.
Perché alla fine, ci viene da pensare, lo spettatore va a teatro? Con quale grado di consapevolezza si sceglie di mettersi davanti ad un altro essere umano, che declamerà le parole di qualcun’altro ancora?
Nel silenzio e nell’attenzione mostrata dal levriero, fedele compagno anche sulla scena che a tratti sembra comprendere il suo padrone, noi ci poniamo queste domande desiderando ad ogni spettacolo di “essere carbonizzati sul posto” e di sentirci perciò vivi.
- Foto di scena di Luca del Pia.