Riceviamo e pubblichiamo l’intervento del vicepresidente della Regione Siciliana Gaetano Armao della seduta dell’Ars del 20 febbraio dedicata al regionalismo differenziato:
«Ringrazio il Parlamento, ed in particolare i parlamentari intervenuti per la ricchezza ed il livello dell’ampio dibattito su un tema assai rilevante per il futuro della Sicilia, che ho seguito integralmente. Oggi è un bel giorno per l’Assemblea non solo perché ha dimostrato la capacità di dialogo e confronto sui temi dell’autonomia tra le forze politiche, ma sopratutto poiché si é giunti alla predisposizione di un documento condiviso sui temi della tutale e del rilancio dell’autogoverno dei siciliani.
Personalmente ho l’onore di assistere dai banchi del governo per la seconda volta ad una forte intesa tra le forze politiche sul tema del regionalismo. La precedente il 21 ottobre 2010, quando fu approvato all’unanimità l’Ordine del Giorno n. 413, con il quale l’ARS ha adottato una posizione sul federalismo fiscale delineato dall’art. 119 Cost e dalla l. n. 42 del 2009, invitando il Governo regionale a negoziare la piena attuazione dei meccanismi di autonomia finanziaria, assicurando la preventiva applicazione delle misure di perequazione fiscale ed infrastrutturale. Le vicende paralizzanti del regionalismo italiano non hanno consentito di scorgere un’evoluzione del sistema.
Il regionalismo differenziato previsto dall’art. 116, terzo comma, Cost, sul quale premono le Regioni del Nord, potrà non danneggiare la Sicilia solo se contestualmente troveranno riconoscimento, così come ha richiesto il Governo regionale, le previsioni dello Statuto e la contemporanea attivazione degli strumenti di perequazione fiscale ed infrastrutturale previsti dalla stessa Costituzione e dai Trattati UE, nonché dalla disciplina sul federalismo fiscale.
È di qualche settimana fa l’intervento di S. Cassese sul Corriere della Sera che ha stigmatizzato non solo la portata effettiva delle iniziative di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: l’obiettivo di trattenere risorse nelle regioni più ricche, ma anche di come tali iniziative determinino la riapertura della “ferita storica del Paese, la mancata unificazione economica a centocinquanta anni di distanza dalla unificazione politica”. Si tratta, in via di principio, di valutazioni del tutto condivisibili relativamente una domanda di autonomia che rischia di perdere di vista le ragioni profonde dell’autogoverno, ma sopratutto quelle imprescindibili, anche negli ordinamenti federali, di coesione e perequazione, sopratutto in un Paese da troppo tempo e sempre più diviso sul piano economico e sociale.
Anzi, in presenza di meccanismi che aggravano il divario come la tendenziale paralisi delle misure perequazione infrastrutturale e fiscale, la fissazione della soglia di investimenti al Sud del 34% sul complesso di quelli approntati e che viene calcolata sulla mera percentuale della popolazione meridionale (l. n.18/2017), a prescindere dall’esigenza di recuperare il divario (e quindi sostanzialmente cristallizzandolo) o vicende come il prelievo forzoso concentrato sulle sole province siciliane (277 mil. € annui), che le sta conducendo al default con gravissimi effetti sui cittadini, svolgono una funzione di sostanziale destrutturazione della solidarietà nazionale.
Lo scenario che descrivono i principali centri di ricerca da Svimez e Fondazione Curella-Diste, a Confindustria, dalla Confcommercio a Confartigianato, solo per riferirsi ai più recenti, evidenziano l’aggravamento, sopratutto qualitativo, del divario tra il Nord ed il Sud del Paese. Una cesura che trascende ormai la quantificazione economico-sociale e che sta consolidando gli aspetti ormai strutturali di un Paese diviso (emigrazione intellettuale,marginalizzazione dell’istruzione e della formazione, isolamento culturale, desertificazione imprenditoriale, invecchiamento, spopolamento, in particolare delle aree interne, accentuazione del dissesto idrogeologico, rarefazione e dequalificazione dei trasporti etc.). È questo avviene nonostante i modestissimi segnali di crescita che il Sud pur registra, ma che rinviano almeno al 2027 la possibilità di completare il pieno recupero di quanto perduto durante la crisi 2007-12.
La Banca d’Italia nell’ultimo Rapporto sull’economia delle regioni italiane nel 2017 evidenzia che il PIL nel Sud, lo scorso anno, era inferiore di circa il 9% rispetto al periodo pre-crisi; la contrazione era oltre due volte quella del Centro-Nord. In termini pro capite, la differenza tra gli andamenti delle due aree è più contenuta (rispettivamente -10% e -8%), ma per effetto delle migrazioni interne e internazionali che hanno portato a una maggiore espansione della popolazione nelle regioni del Centro-Nord. I flussi migratori dal Mezzogiorno coinvolgono in misura crescente individui laureati, impoverendo così la dotazione di capitale umano e le prospettive future di sviluppo dell’area.
La Svimez nel Rapporto 2018 ha evidenziato che nel contesto di un preoccupante ampliamento della forbice dei divari Nord-Sud si rileva “il vero e proprio crollo degli investimenti pubblici”. Ciò in quanto nell’ormai dinamica della spesa in conto capitale, il 2016 ha già fatto toccare il punto più basso della serie storica per l’Italia e per il Mezzogiorno, nel 2017 la spesa in conto capitale declina ancora.
Si tratta del sostanziale dimezzamento dei livelli pre crisi per l’intero Paese, “ma per il Mezzogiorno, si tratta di più che un dimezzamento: se si considera un periodo più lungo, si passa da una quota di spesa in conto capitale nell’area che ancora nel 2002 valeva l’1,6% del PIL nazionale, a una spesa che vale appena lo 0,7%. Il modesto incremento del 2015 non ha interrotto un trend negativo che sembra inarrestabile”. Ma il dato più rilevante – precisa il rapporto SVIMEZ – “è la spesa ordinaria in conto capitale che rappresenta un buco nero per lo sviluppo del Mezzogiorno, confermandosi su livelli del tutto insufficienti, sostanzialmente dimezzati rispetto a quelli pre crisi, e ben lontani da quei principi di “riequilibrio territoriale” sanciti nel 2017 attraverso la previsione della c.d. “clausola del 34%”.
Questo dimostra che il limite minimo del 34% é disatteso. Si tratta di un obiettivo comunque significativo rispetto alle soglie conseguite in questi anni, che tuttavia, non determina in termini sufficienti i presupposti la perequazione infrastrutturale, ma difende solo il diritto alla sopravvivenza del Sud. In particolare, mentre l’FSC é praticamente fermo, il modello “Patti per il Sud” mostra gravi criticità.
La Relazione annuale del Sistema dei Conti pubblici Territoriali 2018, sul punto ha effettuato una simulazione per verificare gli effetti in termini di spesa pubblica che si genererebbero col raggiungimento dell’obiettivo, prescindendo dalle limitazioni imposte dalle norme attuative, e simulando a ritroso quale sarebbe stato l’impatto della norma nell’ipotesi che tutte le Amministrazioni Centrali si fossero conformate – nel periodo 2000-2015 – alla normativa, portando la propria spesa ordinaria complessiva ad un livello pari a quello della popolazione. La simulazione evidenzia che per il Sud la quota di risorse ordinarie reali delle Amministrazioni Centrali è “stata pari mediamente al 28,9 per cento, con una riduzione a circa il 28,4 per cento nell’ultimo triennio considerato, al di sotto della rispettiva quota di popolazione – pari mediamente al 34,4 per cento. Al contrario, nel Centro-Nord la quota delle spese ordinarie risulta pari al 71,6 per cento, quindi di 6 punti percentuali superiore alla popolazione dell’area, che nel medesimo periodo risulta pari al 65,6 per cento”.
Il Report Sud della Fondazione Curella di Palermo ha poi sottolineato, in termini prospettici, quanto flebili siano i margini di crescita per il Mezzogiorno e la Sicilia. Alcuni dati: la debolezza della crescita va ricondotta alla coincidente frenata dei consumi delle famiglie e degli investimenti fissi aziendali, in assenza di aumenti della spesa in conto capitale del settore pubblico destinata all’ammodernamento delle infrastrutture e cosi il PIL del Sud dovrebbe crescere dello 0,7% (il tasso più basso del periodo 2015/2019).
Come dimostrano i dati dei Conti pubblici territoriali presentati dall’Assessorato all’economia nel dicembre scorso, due assunti fondamentali, utilizzati da alcuni per sostenere il regionalismo differenziato e contrastare la spesa per la coesione, risultano meno incisivi sul piano argomentativo di quanto lascino intendere le tesi che sembrano prevalere nelle istanze autonomistiche delle Regioni del nord.
Il primo sul concetto di “residuo fiscale”, nella definizione di J. Buchanan, quale differenza tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici.
Sulla questione la Corte costituzionale ha precisato che “fermo restando che l’assoluto equilibrio tra prelievo fiscale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata, il criterio del residuo fiscale …non è parametro normativo riconducibile all’art. 119 Cost., bensì un concetto utilizzato nel tentativo, storicamente ricorrente tra gli studiosi della finanza pubblica, di individuare l’ottimale ripartizione territoriale delle risorse ottenute attraverso l’imposizione fiscale” (Corte cost. n. 69 del 2016). Da ciò il Giudice delle leggi fa discendere che avuto riguardo alla struttura dell’ordinamento, della riscossione delle entrate tributarie ed a quella profondamente articolata dei soggetti pubblici e degli interventi dagli stessi realizzati sul territorio, “risulta estremamente controversa la possibilità di elaborare criteri convenzionali per specificare su base territoriale la relazione quantitativa tra prelievo fiscale e suo reimpiego”.
Ed infatti il c.d. “residuo fiscale”, anche a considerarlo determinante ai fini dell’assetto delle competenze, si é ridotto drasticamente per la Sicilia passando da -2,419€ dal periodo 2000-2002 ai -1,941€ al periodo 2014-2016 e la tendenza é all’ulteriore ribasso, sicché oggi, anche mantenendo la progressione negativa degli ultimi anni deve ritenersi ulteriormente ridotto di almeno un terzo (quindi poco più di 1.800 euro pro capite). Peraltro, tale dato, non tiene conto della perdurante inapplicazione di quanto previsto dall’art. 37 dello Statuto, in base al quale i rami d’azienda di imprese con sede extra-regionale (in gran parte tra Milano, Roma) devono versare il gettito fiscale IRES maturato in Sicilia. Il che modificherebbe i dati incrementando il residuo fiscale della Sicilia e diminuendo quello di altre Regioni (in particolare Lombardia, Veneto, Lazio).
In senso analogo va poi sottolineato che alla Sicilia é dovuta la retrocessione, almeno parziale – pur in assenza di una previsione statutaria di attribuzione del gettito – di anche limitata parte delle accise maturate dalla raffinazione di prodotti petroliferi che generano gettito per lo Stato e per le Regioni ove vengono immessi sul mercato, mentre nulla lasciano alla Sicilia ove si raffina circa il 40% della produzione nazionale (oltre 8 Md€ di gettito per lo Stato) restano solo i nefasti effetti ambientali. Al netto di queste ulteriori componenti é evidente che l’entità del residuo in questione sarebbe certamente inferiore.
Va infine ricordato con riguardo ai c.d. Residui fiscali che – come dimostrato – nel saldo tra entrate e spese pubbliche si omette di includere la componente di spesa che si é accresciuta negli ultimi venti anni: l’onere per gli interessi da corrispondere ai titolari del debito pubblico (famiglie e imprese; banche, intermediari, assicurazioni, residenti esteri). Tale posta contabile rappresenta spesa per lo Stato ed entrata per i titolari, ne discende che il saldo da considerare, non possa esser quello del semplice residuo fiscale ma il residuo fiscale “aumentato” per gli interessi (residuo fiscale-finanziario).
Il secondo assunto (attraverso il presunto residuo fiscale si alimenterebbe la spesa improduttiva del Sud) é poi smentito dall’andamento della spesa per investimenti cha ha subito (ma questi dati li confermano sia la Banca d’Italia che l’ultimo rapporto della Commissione bicamerale sul federalismo fiscale), un drastico ridimensionamento in contrasto con i principi di coesione sanciti a livello costituzionale (art. 119, terzo e quanto comma, Cost.) e dal TFUE (art. 174-175). A questo segue il peggioramento della gran parte degli indicatori sulla dotazione infrastrutturale della Sicilia.
Appare evidente che in questo senso le misure di perequazione infrastrutturale sono state e risultano ancora oggi insufficienti e non hanno consentito di recuperare un divario inaccettabile, in palese violazione alle previsioni europee e costituzionale italiane del principio di coesione. E tale divario in Sicilia é peraltro aggravato dalla condizione di insularità che non solo consente, ma impone allo Stato l’adozione di misure di riequilibrio strutturale e fiscale (continuità territoriale, fiscalità di sviluppo, etc.). Mentre, avuto riguardo al settore pubblico allargato, si evince una drastica riduzione della spesa in conto capitale proprio per la Sicilia, mentre quella del resto del Paese si attesta su livelli omogenei è di gran lunga superiori (oltre il 20%).
Peraltro, dimostrano un andamento crescente in favore del Centro-Nord sia la spesa pensionistica (su cui incidono la diversa struttura per età della popolazione e il maggiore importo medio delle erogazioni nelle regioni in cui i redditi da lavoro sono più elevati) che quella assistenziale, in relazione all’evoluzione demografica e della domanda di ammortizzatori suscitata dalla crisi, e tale fenomeno sarà aggravato dall’applicazione della c.d. “quota cento” che dispiegherà i propri prioritari effetti in quell’area. Ciò determina un aggravamento del divario a sfavore del Mezzogiorno.
E’ così attribuita alla Sicilia in questa categoria una somma pro capite pari, mediamente, al 79% del valore nazionale e al 71% del valore del Centro-Nord, con un evidente consolidamento del divario che non accenna a diminuire. Da ultimo, i dati presentati dimostrano che un altro degli stereotipi comunemente utilizzati per evidenziare l’esorbitante numero di impiegati della p.a. in Sicilia, appare sostanzialmente mutato. I dipendenti della p.a. di questa Regione risulta infatti allineato con quello statale (al 2016 in Italia 53,7 dipendenti ogni mille abitanti, in Sicilia 54), tali dati peraltro oggi devono ritenersi ormai equiparati in considerazione della drastica diminuzione dei dipendenti regionali nell’ultimo biennio.
Il negoziato aperto dalla Regione con lo Stato sull’autonomia finanziaria segna già un primo utile risultato con l’accordo del 22 dicembre 2018, occorre adesso che questo proceda, come quello delle altre speciali e l’adozione di congrue misure di perequazione e coesione previste dalla stessa normativa sul federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009), in modo armonico e contestuale con l’iter delle istanze di differenziazioni delle Regioni italiane.
In tal senso giova ricordare che il Governo regionale ha approvato con delibera del 15 maggio 2018, n. 197 lo schema di nuove norme di attuazione in materia finanziaria che consentono la piena attuazione delle richiamate previsioni statutarie, con il superamento dell’attuale assetto incentrato su quelle, ormai penalizzanti, del 1965, il richiamato accordo in materia di finanza pubblica ha stabilito sul punto che Stato e Regione dovranno provvedere ad “aggiornare le norme di attuazione dello Statuto siciliano in materia finanziaria entro il 30 settembre 2019, con effetti a partire dall’anno 2020 previa individuazione della copertura finanziaria ove necessaria”, in atto é in corso il negoziato tra le parti. Con successiva delibera del 18 luglio 2018, n. 265 la stessa Giunta ha predisposto la documentazione per le misure compensative della condizione di insularità.
In conclusione, non sono in gioco regionalismo differenziato “clausola di asimmetria” di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., sopratutto se ne invocano l’applicazione le comunità regionali (Lombardia e Veneto, come noto, hanno fatto precedere la richiesta dai referendum), ma la prospettazione che ne viene fatta come soluzione che impone il trasferimento di un numero assai elevato di competenze, nel contempo, sganciata dalla considerazione degli imprescindibili ed adeguati meccanismi di coesione e perequazione, e nel presupposto (non veritiero) che non vi sia questione di risorse finanziarie.
Tali meccanismi di perequazione (fiscale ed infrastrutturale) sono già previsti dalla richiesta disciplina sul federalismo fiscale rimasta inapplicata, proprio su tali questioni, nonostante il decorso di un decennio. Non ci può essere rafforzamento del federalismo senza l’imprescindibile approntamenti delle misure di coesione, una diversa soluzione paleserebbe concreti profili di incompatibilità costituzionale che le Regioni che assumono di ricevere un pregiudizio non potrebbero che contestare.
Uno spettro eccessivamente ampio di materie (23) di cui si richieda il trasferimento, ma sopratutto la richiesta di risorse finanziarie aggiuntive, in carenza di una legislazione nazionale che garantisca l’uniformità dei diritti civili e sociali e di una legge quadro con i criteri da adottare per l’attribuzione delle ulteriori risorse e delle funzioni, non appare in linea con i ristretti confini delineati proprio dall’art. 116, terzo comma, tornato in auge dopo il fallimento della riforma costituzionale che puntava in senso giustapposto, ad un rafforzamento del centralismo statale.
I siciliani, che hanno conquistato la prima Costituzione nel 1812 e l’hanno poi rivista in senso federale nel 1848, dopo aver segnato l’inizio di rivoluzioni che hanno percorso l’intera Europa, sino ad ottenere nel 1946 l’autonomia regionale speciale, non potranno che sostenere questo percorso, purché l’evoluzione dell’ordinamento sia accompagnata dal riconoscimento delle competenze finanziarie della Sicilia, fulcro di un’autonomia che attraverso profonde riforme deve divenire ancor più responsabile ed efficiente, della condizione di insularità nonché dalle richiamate misure di riequilibrio e coesione.
In particolare la condizione di insularità è il nuovo paradigma nel quale declinare l’attuazione dello Statuto di autonomia.
Come noto la coesione economica, sociale e territoriale è uno degli obiettivi sanciti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il cui art. 174 esprime chiaramente la volontà di costruire un’Europa unita e solidale, indipendentemente dalle specificità dei territori. All’art. 349, il TFUE riconosce la condizione di “ultraperifericità” per taluni territori ed elenca come corollario le azioni necessarie a compensare gli svantaggi di tali territori. Questo regime favorevole, di cui godono le regioni ultraperiferiche, sarà confermato dalla futura politica di cooperazione territoriale europea. La situazione è al contrario sensibilmente diversa per gli altri territori insulari. Nonostante l’art. 174 riconosca le difficoltà strutturali legate alla condizione di insularità, tale riconoscimento, a differenza di quanto avviene per i territori ultraperiferici, è rimasto finora lettera morta e non ha determinato alcun intervento operativo e concreto. Questa lacuna ostacola qualsivoglia prospettiva di sviluppo della Sicilia e della altre isole europee.
La discontinuità territoriale, caratteristica precipua dell’insularità, è fonte di svantaggi specifici, al di là di quelli legati alla distanza, che sono significativamente più rilevanti nel caso delle regioni insulari. Molti studi hanno messo in luce nel dettaglio le conseguenze in termini di ritardi nell’innovazione e negli scambi. È quindi particolarmente difficile per una regione insulare disporre di una rete di distribuzione efficiente. Un fatto che penalizza la competitività delle imprese insulari, condizionando la crescita delle imprese esistenti e la creazione di nuove imprese, fatto che incide negativamente sul mercato del lavoro delle isole. In più, per i cittadini, ciò significa prezzi più elevati e una minore disponibilità di prodotti.
I problemi legati alla discontinuità territoriale sono significativi anche in termini di mobilità e accessibilità da e per le isole, in assenza di trasporti alternativi, di infrastrutture stradali e ferroviarie con le regioni limitrofe, una sinergia che genera un reale “costo di cittadinanza” in termini di prezzo, frequenze, calendarizzaizione e tempi di percorrenza. Inoltre, la combinazione di “discontinuità territoriale – esiguità dei mercati domestici” espone le isole al rischio di posizione dominante, a discapito degli interessi degli utenti.
È necessario inoltre mettere l’accento sulla specificità di isola del Mediterraneo. Nello scenario dei cambiamenti climatici delineato dal rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dello scorso 8 ottobre, la zona mediterranea risulta come una delle più colpite. Questi aspetti di vulnerabilità contribuiscono a far sì che sia necessario considerare la realtà specifica delle isole del mediterraneo, al fine di mantenere la coesione l’uguaglianza con il resto dei territori dell’Unione europea.
Al fine di garantire pari opportunità ai cittadini siciliani, europei che vivono nei territori insulari, sono necessari interventi specifici, sia in termini di regolamentazione che di risorse. Questo punto di vista è chiaramente espresso in numerosi documenti approvati da diverse istituzioni europee, tra cui la risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2016 sulle isole non ultraperiferiche, numerosi pareri del Comitato delle regioni d’Europa, CESE e della Conferenza delle Regioni Periferiche e Marittime.
Nonostante queste istanze, la legislazione europea e le politiche dell’UE, ma ancora di più le politiche statali non hanno ancora prodotto misure compensative sufficienti che siano in grado di mitigare gli svantaggi specifici della condizione insulare. In particolare, la politica degli aiuti di Stato nel settore dei trasporti non tiene sufficientemente conto delle caratteristiche territoriali specifiche delle isole e non raggiunge l’obiettivo di garantire il diritto alla mobilità di questi territori. Inoltre, le recenti proposte della Commissione sulla connettività europea e sulla politica di coesione e di cooperazione territoriale europea non tengono conto della conseguente discontinuità territoriale e delle difficoltà strutturali dei territori insulari.
Alla luce di questi fattori e al fine di superare tali handicap, la Sicilia deve richiedere, e si sta adoperando per esprimere tale posizione congiuntamente alle grandi Isole mediterranee in sede europea (Sardegna, Corsica, Baleari), il pieno riconoscimento degli svantaggi strutturali causati dalla particolare situazione geografica delle isole, e chiedono l’effettiva attuazione dell’articolo 174 del TFUE attraverso misure specifiche volte a superare le limitazioni e i vincoli determinati dalla condizione insulare, on la conseguente inclusione della questione insulare nel dibattito politico in seno al Consiglio dell’Unione europea e di promuovere, nel processo decisionale europeo, misure compensative finalizzate a superare gli svantaggi dell’insularità, con una specificata attenzione sulla disciplina in materia di aiuti di Stato, particolarmente penalizzante per questi territori.
L’obiettivo é quello di integrare, nel dibattito che definirà lo scenario normativo e programmatico per il periodo successivo al 2020, misure specifiche di compensazione proporzionali all’entità e all’estensione della discontinuità territoriale, tenendo conto di fattori quali un indice di “perifericità insulare” (demografia, stagionalità, tempo, ecc.). In questo modo sarà realizzata, ogni qualvolta ciò sia giustificato da elementi obiettivi, l’inserimento di una clausola di insularità nelle politiche pubbliche europee interessate.
La presente richiesta non deve puntare ad ottenere una condizione di privilegio, ma esclusivamente delle misure di compensazione necessarie per consentire ai cittadini e alle imprese insulari di raggiungere una qualità della vita e del lavoro analoghe a quella dei territori continentali. In particolare a riconoscere la compatibilità dei regimi di aiuto destinati a compensare i costi aggiuntivi direttamente imputabili ai vincoli associati alla condizione di insularità, in particolare per quanto riguarda il diritto alla mobilità di chi risiede nelle isole e il trasporto delle merci, e, più in generale, d’integrare la dimensione insulare nella fiscalità da applicare, garantire, conformemente al principio di sussidiarietà, la più ampia flessibilità nell’ambito degli interventi dei Fondi strutturali e di investimento europei nelle aree tematiche in cui le sfide dei territori insulari periferici sono più evidenti, in modo da poter inserire nei documenti di programmazione obiettivi prioritari strettamente legati ai problemi insulari (trasporti, connettività digitale, reti energetiche, gestione delle risorse naturali), nonché prevedere tassi di cofinanziamento dei fondi SIE più elevati per le regioni insulari periferiche e la creazione di un sottoprogramma delle Isole del Mediterraneo all’interno del futuro programma Interreg Med 2021-2027. Appare parimenti necessario istituire un sistema di continuità territoriale efficiente e modernizzato che tenga conto di tutti i costi reali legati alle discontinuità fisiche e digitale ed applicare l’articolo 174 del TFUE fin dalle prime fasi del processo decisionale.
In tal senso giova ricordare che con la recente sentenza n. 6 del 2019 la Corte costituzionale ha stabilito che il legittimo ordine dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e la Regione deve essere ripristinato “nella sostanza e non solo nella formale petizione di principio’, e in considerazione ‘del ritardo dello sviluppo economico dovuto all’insularità e dell’evoluzione dei complessivi rapporti finanziari tra Stato e Regione”. E cosi il Giudice delle leggi, entrando per la prima volta nel merito della questione dell’insularità, ha elencato i fattori che determinano in modo vincolante il concorso regionale alla finanza pubblica. In particolare “partendo dall’andamento storico delle entrate e delle spese della Regione, antecedente alla entrata in vigore della legge n. 42 del 2009, la rimodulazione deve tener conto della dimensione della finanza della Regione (Sardegna) rispetto alla finanza pubblica complessiva; delle funzioni effettivamente esercitate e dei relativi oneri; degli svantaggi strutturali permanenti, dei costi dell’insularità e dei livelli di reddito pro capite; del valore medio dei contributi alla stabilità della finanza pubblica allargata imposti agli enti pubblici regionali nel medesimo arco temporale; del finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Luigi Sturzo, primo mentore dell’autonomia siciliana, in uno scritto del 9 novembre del 1947, che ricalca la proposta politica per il Meridione avanzata nel celebre discorso di Napoli del 18 gennaio 1923 (Il Mezzogiorno e la politica italiana. Il programma del risorgimento italiano) nell’individuare puntualmente le condizioni per una rinascita del Mezzogiorno e della Sicilia, per un verso, proponeva di dare maggiore consistenza economica alle regioni e procedere verso una progressiva articolazione federale dello stato, in modo che “le giunte regionali concorrano con il governo centrale a ristabilire il necessario equilibrio economico fiscale già alterato a danno del Mezzogiorno”. Dall’altro richiamava la necessità di educare allo spirito d’iniziativa e d’imprenditorialità, affinché il Mezzogiorno fosse restituito ai meridionali e fossero loro gli attori del suo risorgimento: «Lasciate che noi del Meridione possiamo amministraci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare l’iniziativa dei rimedi ai nostri mali ;… non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord; e uniti nell’affetto di fratelli e nell’unità di regime, non nella uniformità dell’amministrazione, seguiremo ognuno la nostra via economica, amministrativa e morale nell’esplicazione della nostra vita».
Non può prevalere, rispetto alle spinte del dibattito sul regionalismo italiano, la paura di chi legge di voltar pagina all’autonomia siciliana, ma l’ansia di voltarla di chi è consapevole di contribuire a scrivere la storia e disegnare un futuro per i nostri figli. Oggi, con l’approvazione di questo ordine del giorno proposto unanimemente dalle forze politiche presenti in Parlamento, e fuori da ogni convenienza partitica, si interpreta pienamente l’ansia di riscatto che anima i siciliani e l’urgente necessità di dare finalmente piena attuazione allo Statuto, carta fondamentale concepita per garantire ai nostri concittadini il diritto all’innovazione ed all’eguaglianza».
Prof.Gaetano Armao
vicepresidente della Regione Siciliana
Assessore regionale all’Economia