Sono 54 le persone finite in carcere nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Messina sul clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Per 27 sono stati disposti gli arresti domiciliari e per 5 l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. I reati contestati a vario titolo sono l’ associazione mafiosa, l’estorsione, lo scambio elettorale politico mafioso, il trasferimento fraudolento di valori, la detenzione e il porto illegale di armi, l’incendio, l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la detenzione ai fini di spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione con l’aggravante del metodo mafioso.
L’inchiesta ha svelato le attività illegali del clan barcellonese, i suoi tentativi di infiltrarsi nelle attività imprenditoriali lecite, in particolare nel settore della commercializzazione di prodotti ortofrutticoli attraverso prestanomi e imponendo forniture dei prodotti e prezzi da applicare sulla merce. Forte l’interesse della cosca anche per il business dei locali notturni e dei ristoranti. L’inchiesta ha accertato movente ed esecutori dell’incendio doloso appiccato a una sala ricevimenti di un’impresa non controllata dalla cosca. Per gli inquirenti, nonostante anni di indagini che hanno decimato le fila del clan con arresti e la condanna di capi storici e gregari, i barcellonesi avrebbero manutenuto il controllo del territorio.
Dagli arresti domiciliari organizzavano summit, definivano piani e strategie, riorganizzavano la famiglia e ricostruivano l’alleanza tra i vertici del clan per imporre una regia unica alle attività illecite e ripristinare la cassa comune (che chiamavano “paniere” o “bacinella”) dove far arrivare i soldi sporchi, in parte destinati al sostentamento degli uomini d’onore detenuti.
La cosca, secondo gli inquirenti, negli ultimi tempi sarebbe stata completamente riorganizzata, gli antichi dissapori tra i vertici messi da parte in nome di business comuni come la richiesta di pizzo alle imprese e agli esercizi commerciali da riscuotere, come da tradizione, durante le festività di Pasqua, Natale e Ferragosto. Le vittime del racket, sottoposte a minacce e intimidazioni, vivevano in un clima di terrore. Nessuno si rivolgeva agli investigatori. Dalle indagini è emerso inoltre che il clan aveva la disponibilità di armi, anche da guerra, e controllava la prostituzione. L’attività era gestita da una organizzazione criminale che faceva capo a un uomo vicino alla famiglia mafiosa, che in cambio di “protezione” assicurava ai boss una percentuale sui guadagni. Ai “barcellonesi”, inoltre, facevano capo un grosso traffico di droga destinato alle piazze di spaccio di Barcellona Pozzo di Gotto, Milazzo e altri comuni della provincia e le bische clandestine.
Il clan aveva rapporti costanti con organizzazioni criminali in Sicilia e in Calabria. Nell’ambito dell’inchiesta sono state scoperte due organizzazioni criminali che rifornivano le piazze di spaccio non solo della cittadina messinese, ma anche di altri comuni dell’area tirrenica, tra cui Rodì Milici, Terme Vigliatore e Milazzo, arrivando fino a Messina città, Letojanni e Giardini di Naxos. Durante l’indagine sono stati sequestrati circa 19 kg. di sostanza stupefacente tra cocaina, hashish e marijuana.Grazie ai carabinieri della Compagnia di Milazzo inoltre è stata documentata la filiera al dettaglio dello spaccio di marijuana, hashish, Lsd e cocaina distribuite nell’area di Milazzo, della Valle del Mela, del barcellonese e nelle Isole Eolie. Le bande ricorrevano alla violenza per riscuotere i soldi guadagnati dalla vendita di droga e attraverso furti in abitazioni, lidi balneari, un cantiere nautico e un’autorimessa mettevano insieme il denaro necessario per l’acquisto dello stupefacente.