“Il traffico delle sostanze stupefacenti costituisce la fonte primaria di finanziamento per “Cosa nostra”, la quale ricava da tale attività delittuosa quel costante flusso di danaro che consente non solo di far fronte alle molteplici spese dell’associazione, ma anche di reinvestire parte di tali risorse in altre attività economico-imprenditoriali, di modo da poter espandere la sfera dei propri interessi illeciti”, questo quanto emerge dalla relazione sull’amministrazione della giustizia dall’1 luglio 2016 al 30 giugno 2017 nel distretto della Corte di Appello di Palermo, firmata dal presidente della Corte Matteo Frasca, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018.
“La compravendita di stupefacenti, la cocaina in primis, il cui consumo è aumentato esponenzialmente nel corso degli ultimi anni, abbracciando tutte le fasce sociali e di età è un’attività estremamente remunerativa – prosegue Frasca -: secondo i risultati delle indagini tale droga viene acquistata nei paesi produttori sudamericani a mille/duemila dollari al chilo per essere rivenduta in Italia a un prezzo oscillante fra i 70 e i 100 euro al grammo; il semplice passaggio di mano di un chilogrammo di cocaina da un intermediario a un grossista, per esempio, può quindi portare a un guadagno oscillante fra i 10 ed i 20 mila euro”.
“Tali considerazioni economiche, unite al già menzionato aumento della richiesta di tale tipo di stupefacenti, ha quindi indotto le famiglie mafiose a investire massicciamente nel traffico internazionale di cocaina, ritenuto (e a ragione…) non solo attività assai più remunerativa, ma anche meno rischiosa della sistematica imposizione del “pizzo” alle attività commerciali insistenti nel proprio territorio. Nonostante le severe pene previste, l’efficienza raggiunta dalle indagini in materia di estorsioni, alla quale si unisce la meritoria opera svolta da alcune associazioni antiracket, rende, secondo le stesse valutazioni di alcuni associati, la riscossione del pizzo una delle attività che più espongono all’attività repressiva delle Stato”.
“In effetti – aggiunge Frasca – una innumerevole serie di arresti dei soggetti, che statisticamente hanno dato luogo ad alcune collaborazioni con la Giustizia, onde usufruire dei consistenti sconti di pene legislativamente previsti, che consentivano di trarre in arresto altri affiliati, ha avuto l’effetto di aumentare la popolazione carceraria, il cui sostentamento è, da sempre, una delle principali preoccupazioni e fonte di impegno economico per la stessa sopravvivenza dell’associazione mafiosa. Come osservato in passato da uno dei referenti mafiosi della famiglia mafiosa di Bagheria, quindi, la sistematica imposizione del pizzo, da sempre giustificata con la necessità di aiutare i carcerati finisce con l’incrementare il numero dei detenuti”.
“Le più recenti indagini hanno confermato che alcune famiglie mafiose palermitane hanno instaurato frequenti rapporti con soggetti (organici alla ‘ndrangheta calabrese, reggina in particolare) fornitori di cocaina, poi rivenduta nella zona territoriale di pertinenza, sia attraverso una diffusa rete di spaccio al dettaglio, creata e coordinata dalla stessa famiglia in vere e proprie ‘piazze di spaccio’ (specie nei quartieri popolari di Ballarò, Zen, Sperone e Guadagna), che mediante cessione a grossisti fornitori dei pusher, che agiscono nei dintorni dei locali più noti della cosiddetta movida palermitana”. “Le famiglie mafiose – conclude – sono solite delegare a singoli soggetti ad essa organici (di assoluta fiducia ed esperti nel settore) l’attività di approvvigionamento e successiva cessione di cocaina; tali soggetti rispondono del loro operato esclusivamente ai vertici del sodalizio. Il prezzo dello stupefacente, ovviamente, aumenta notevolmente se comprensivo del trasporto dalla Calabria a Palermo (generalmente a bordo di autoveicoli), atteso che va remunerato anche il rischio che viene accollato al vettore”.