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Carlo Alberto Dalla Chiesa e quei poteri speciali negati

domenica 3 Settembre 2017
Dalla Chiesa

La nomina del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era già nei propositi del governo nazionale, prima ancora dell’assassino di Pio La Torre avvenuto il 30 aprile del 1982. Il presidente del consiglio di allora, il repubblicano Giovanni Spadolini, ne aveva anche parlato con il parlamentare comunista ricevendone un pieno consenso.

L’assassinio di La Torre, ovviamente, accelerò quella decisione nel convincimento che, come aveva già fatto per il terrorismo, Dalla Chiesa avrebbe assestato un colpo decisivo alla mafia, ripristinando nell’isola l’autorità dello Stato, con l’impegno che avrebbe avuto dal governo un sostegno assoluto e in particolare dei poteri speciali.

La sua nomina da una parte del mondo politico fu accolta con una certa freddezza e preoccupazione, poiché era evidente che il nesso mafia- politica era un nervo scoperto del sistema politico siciliano.

Preoccupazione serpeggiava anche nel mondo dell’economia, in primo luogo quella che prosperava grazie al rapporto con la mafia, ma anche tra chi, pur non avendo alcun contatto con la mafia, sopravviveva grazie ad un sistema di piccole illegalità che un’incisiva attività di controllo non avrebbe più consentito. Perfino chi subiva la prepotenza della mafia, oscillava tra un’ansia di riscatto e la paura di essere scoperto di non avere mai reagito.

In alcuni ambienti giudiziari, anche quelli fortemente impegnati nell’attività antimafia, si nutre qualche perplessità, in particolare sui poteri di indagine da affidare al prefetto, temendo una sovrapposizione e una confusione di ruoli, peraltro costituzionalmente riservati alla magistratura.

Anche nel Partito Comunista, il più convinto sostenitore della nomina del Generale, vi sono alcune frange che esprimono delle riserve in particolare sui poteri speciali in nome del garantismo, poiché non avevano condiviso i metodi usati dal Generale nella lotta al terrorismo e nell’uso dei pentiti, anche se in seguito molti di questi critici diventeranno ferventi giustizialisti.

Grande speranza e fiducia manifesta l’opinione pubblica siciliana per il nuovo prefetto, percepito come uomo giusto e rigoroso. D’altra parte i siciliani hanno sempre avuto la convinzione che solo un intervento esterno, un liberatore “da fuori”, li avrebbe potuto liberare dalle ingiustizie e dalle prepotenze.

Giunto a Palermo, Dalla Chiesa non perde tempo. Incontra studenti, operai, riceve delegazioni, ascolta bisogni, visita le comunità di recupero di tossicodipendenti. Il suo intento è dimostrare che lo Stato è presente ed è l’unico legittimato a esprimere l’autorità nel territorio. Dei poteri speciali promessi, però, nemmeno l’ombra, nonostante dopo il suo arrivo, Cosa Nostra avesse fatto sentire la sua voce con la terribile strage sulla circonvallazione di Palermo dove, per uccidere il boss catanese Alfio Ferlito, durante il suo trasferimento al carcere di Trapani, non si fece scrupolo di uccidere anche tre carabinieri.

Al Generale non sfugge che, rispetto alla lotta al terrorismo, non gode dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana. La mafia? Roba dei siciliani! E soprattutto, non sente la lealtà di tutto il mondo politico siciliano. Questa lungaggine sull’affidamento dei poteri, la discussione bizantina intorno ad essi, non lo aiuta, anzi lo delegittima agli occhi dell’opinione pubblica ma, soprattutto, agli occhi della stessa mafia che capisce che non tutto lo Stato sta dalla sua parte.

Nasce da questa consapevolezza la famosa intervista rilasciata al giornalista di Repubblica Giorgio Bocca, in cui denunciava i mancati impegni del governo, ricordando, come nel caso del giudice Costa, che chi nella lotta alla mafia è lasciato solo può essere ucciso e isolato come “un corpo estraneo “.

A Roma dopo questa intervista sembra che qualcosa si stia muovendo, ma la soluzione non avrà neanche il tempo di essere proposta. La mafia arriva prima del decreto, stroncando il 3 settembre del 1982 in via Isidoro Carini la vita al prefetto, all’agente di scorta Domenico Russo e alla moglie Emanuela Setti Carraro.

Questo barbaro omicidio suscitò un’indignazione e una reazione in tutto il paese. I funerali si svolsero in un clima incandescente in cui il cardinale Pappalardo, nella sua famosa omelia, sferzò duramente la classe politica: “Dum Romae loquitur, Saghuntum expugnatur”. (Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto (Palermo) è espugnata).

Occorreva una risposta immediata ed energica, dal momento che era in gioco la credibilità dello Stato democratico. In una settimana fu approvata dal Parlamento la nuova legge antimafia, la Rognoni- La Torre, che introduceva il reato di associazione mafiosa (dando la possibilità di procedere al sequestro e alla confisca dei patrimoni mafiosi) e viene ricostituita la Commissione parlamentare antimafia. In ultimo è istituito l’Alto Commissario per la lotta alla Mafia, a cui vengono affidati quei poteri speciali che erano stati negati a Dalla Chiesa.

Rimase il rammarico e l’amarezza di avere perso troppo tempo e di aver assistito ad una lunga catena di morti prima di prendere consapevolezza del pericolo che la mafia rappresentava per la democrazia italiana. Rimase anche l’interrogativo perché si affidavano al nuovo prefetto quegli stessi poteri, anzi maggiori, di quel che erano stati negati e invocati invano da Dalla Chiesa.

Nonostante il cartello affisso sul luogo della strage dalla mano pietosa di un palermitano che esprimeva tutta la disperazione di una città, “Qui muore la speranza dei palermitani onesti“, fu da quel sacrificio che ripartì la speranza per estirpare la mafia dalla società.

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