A Palermo, nel corso del 1789, nella Reale Stamperia, venne pubblicato il primo volume di un codice in lingua araba, intitolato “Il Consiglio di Sicilia”, tradotto dal monaco Giuseppe Vella, uomo che si è reso protagonista di due tra le più celebri falsificazioni nella storia della Sicilia. Ma procediamo con calma. Innanzitutto, Vella nacque sull’isola di Malta, dove studiò teologia per poi entrare a far parte dell’Ordine di San Gerolamo. Nel 1780 si trasferì a Palermo e nel 1782 divenne cappellano del monastero di San Martino della Scala di Monreale.
Nello stesso anno accadde qualcosa che mutò per sempre la storia e il destino del monaco maltese: l’arrivo nel capoluogo siciliano dell’ambasciatore marocchino Muhammad Ibn ‘Uthman. Quest’ultimo fu costretto ad approdare a Palermo per sfuggire ad una burrasca e Vella ricevette l’incarico d’intrattenere l’illustre ospite. Ma come mai fu scelto proprio lui?
Questa è un’epoca nella quale le élite intellettuali palermitane non conoscevano o conoscevano poco l’arabo. Inoltre, il nostro monaco, grazie alla sua lingua madre (il maltese è una forma di dialetto arabo in alfabeto latino) e forse con qualche conoscenza di arabo, sembrò essere la persona più adatta per rallegrare Ibn ‘Uthman, facendogli visitare la città di Palermo e i suoi dintorni, compreso il monastero di San Martino di Monreale, dove erano conservati anche diversi codici musulmani.
In quest’occasione, Vella si guadagnò la fama di grande arabista. E poiché in città, a quanto sembrava, nessuno era in grado di comprendere l’arabo, per lo meno a certi livelli, il monaco ne approfittò per mettere in scena una falsificazione documentaria destinata ad avere grande eco.
A partire dal 1783, Vella iniziò a sostenere che nella biblioteca di San Martino era conservato un codice contenente un registro della cancelleria musulmana di Sicilia, costituito da molteplici lettere inviate dagli emiri siciliani, a partire dal periodo della conquista dell’Isola, ai principi musulmani d’Africa e ai sultani d’Egitto. Naturalmente, nulla di tutto ciò era vero, in realtà, il codice conteneva una biografia di Maometto, quindi, la traduzione fu inventata di sana pianta dal monaco maltese ma inizialmente nessuno se ne rese conto.
Anzi, “Il Consiglio di Sicilia” ottenne l’attenzione di molti intellettuali e studiosi palermitani, tra cui l’arcivescovo Alfonso Airoldi che patrocinò in buona fede l’opera di Vella. Non soltanto a Palermo ma un po’ in tutta Europa la notizia del ritrovamento di un’opera del genere fu accolta con grande entusiasmo. Negli anni successivi, però, incominciarono a sorgere dei dubbi circa l’autenticità del codice, in particolar modo, il canonico Rosario Gregorio, storiografo di corte, espresse le proprie perplessità, notando incongruenze linguistiche e stilistiche in relazione al contesto geografico e cronologico.
A questo punto, è bene chiedersi il motivo per cui questo falso ebbe così tanto successo. Ci troviamo in un periodo in cui veniva aleggiata la possibilità che la corona di Sicilia potesse essere inglobata e assorbita alla corona di Napoli (cosa che poi effettivamente avvenne) e nel regno siciliano vi era, ovviamente, la volontà di scongiurare un simile scenario.
Per cui, “Il Consiglio di Sicilia” rispondeva non soltanto ad un’esigenza storiografica, in quanto avrebbe fornito un’enorme quantità di conoscenze per il periodo della dominazione musulmana in Sicilia, ma soprattutto rispondeva ad un’esigenza politica: infatti, nel codice, Vella elaborò una serie di tesi che dimostravano l’origine araba e non normanna della corona siciliana, nonché del diritto pubblico e delle istituzioni isolane. Quindi, in questo modo, s’intendeva sottolineare l’autonomia degli affari siciliani rispetto a quelli dell’Italia meridionale, una posizione che all’epoca non poteva che essere accolta con entusiasmo dalle élite palermitane.
Nel 1793, Vella diede vita ad un altro importante falso, “Il Consiglio d’Egitto”, anche questo redatto per finalità politiche, cioè, rivendicare la completa separazione e autonomia degli affari siciliani da quelli napoletani, contenente numerose corrispondenze tra i sovrani normanni e i sultani d’Egitto.
Attraverso quest’altra impostura venivano forniti argomenti volti ad abolire vari privilegi feudali, inoltre, s’intendeva riconoscere alla corona siciliana diverse prerogative, soprattutto fiscali, come, ad esempio, sui boschi, sui fiumi e sui mulini. Ad ogni modo, ben presto, l’edificio di menzogne e falsificazioni messe in atto dal monaco di San Martino crollò grazie all’intervento dallo studioso Giuseppe Hager, professore di lingua araba all’università di Vienna. Così, nel 1796, i tribunali regi condannarono Vella a 15 anni di carcere per la sua attività falsificatoria.
I due importanti falsi storici continueranno, e non a caso, a suscitare grande interesse nei decenni successivi, infatti, diversi saranno gli studiosi, i poeti e i letterati che ne prenderanno spunto: pensiamo, ad esempio, a Domenico Scinà, Giovanni Meli, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Sicuramente, questa vicenda ci dice tanto sulla mentalità e sulle idee che, a fine Settecento, si erano annidate tra i nobili siciliani sulla storia della Sicilia, del suo diritto e delle sue istituzioni. Una mentalità che ci permette anche di comprendere meglio le successive vicende risorgimentali. Insomma, una storia da rileggere incessantemente e attentamente, una storia da non dimenticare.