Sono tante, ancora oggi, le domande senza risposta e i misteri attorno la Strage di Capaci, del 23 maggio 1992. Oltre alla matrice mafiosa, oggi la procura di Caltanissetta sta indagando sui cosiddetti “mandanti occulti” e sulle “menti raffinatissime” di cui parlava Giovanni Falcone.
Ecco una carrellata sui quesiti rimasti aperti e che potrebbero portare ad un “Capaci ter“.
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IL CAMBIO IMPROVVISO DI LUOGO
La prima domanda riguarda il luogo dell’attentato. «Perché Riina stoppò l’attentato a Roma a Falcone, per farne uno dalle modalità clamorose a Palermo?», chiede il pm Nino Di Matteo.
Cosa nostra era già pronta a ucciderlo a Roma con alcuni uomini tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro. «Avevano tutto pronto per colpirlo con un attentato abbastanza semplice con kalashnikov. Ma furono richiamati improvvisamente da Riina che fermò una esecuzione che era nella fase di preparazione e richiamò a Palermo quel commando. Perché si preferì un attentato difficile nella preparazione e nell’esecuzione?».
Da Roma a Capaci, facendo addirittura saltare in aria un pezzo di autostrada. Un segnale per creare terrore nello Stato o anche il “la” per intavolare la successiva Trattativa, ormai accertata?
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ELIO CIOLINI
Perché fu sottovalutato l’allarme di Elio Ciolini (ex neofascista, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, legato ai servizi segreti deviati) che dopo l’omicidio Lima preannunciava una stagione di attentati e bombe?
Il ministro dell’interno Scotti rilanciò in maniera eclatante quell’allarme con un suo intervento in Parlamento. «Perché fu sottovalutato e definito “una patacca” da Giulio Andreotti? Perché subito dopo nonostante quella previsione tragica di Scotti si realizzò con la strage di Capaci e dopo il ministro fu sostituito quando si formò un nuovo governo e dirottato a quello degli Esteri?», chiede ancora Di Matteo.
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L’ESPLOSIVO
Sappiamo che una parte dei 400 Kg di tritolo usati per l’attentato furono presi da bombe inesplose recuperate in mare da alcuni pescatori, che li misero a disposizione di Cosa nostra. Lo ha rivelato il pentito Gaspare Spatuzza al processo Capaci bis. Ma sull’esplosivo c’è qualche ombra: ci sarebbero anche tracce di pentrite e T4.
Altrimenti detta RX, la pentrite può provenire dal Semtex o da una miccia detonante. In genere è usata da strutture militari perché ha una velocità di detonazione molto elevata. Solo gli esperti statunitensi (nella perizia dell’FBI) ne hanno trovato traccia.
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L’ARRIVO A PUNTA RAISI
Come facevano i mafiosi a sapere dell’arrivo di Falcone a Punta Raisi? Si ipotizza che una talpa possa aver riferito a Raffaele Ganci, incaricato di dare il segnale ai suoi complici, l’orario di arrivo di Falcone all’aeroporto di Palermo. Ma, al momento, non ci sono prove di un coinvolgimento di “esterni” a Cosa nostra. Di certo era un’informazione segretissima e riservata.
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IL TELECOMANDO
«Perché il telecomando che venne utilizzato per la strage di Capaci venne consegnato da Pietro Rampulla, esponente storico della destra estrema, a Giovanni Brusca che lo azionò come dice la sentenza? Perché Pietro Rampulla che doveva partecipare materialmente all’attentato quel 23 maggio, adducendo una scusa, alla fine non fu presente? Ci sono ancora indagini in corso per capire se insieme a uomini della mafia ci fossero soggetti che avrebbero potuto aiutare a realizzare quell’attentato tecnicamente così difficile. È un attentato davvero clamoroso e difficile da preparare. Nella visione di chi l’ha fatto è riuscito benissimo. Sono morti coloro i quali dovevano morire, ma non vennero provocate conseguenze nei confronti degli altri che passavano per la strada. Un’operazione criminale perfettamente riuscita», spiega Di Matteo.
Le recentissime rivelazioni del pentito Maurizio Avola aprono un nuovo scenario: c’era un “forestiero” ad aiutare i mafiosi: era un artificiere di John Gotti, il capo della famiglia mafiosa Gambino di New York.
L’ipotesi – tutta da dimostrare – è che ci sia stato un “secondo cantiere”, e dunque un secondo telecomando. Sappiamo che l’auto di Falcone rallentò poco prima della curva per Capaci per la nota vicenda del mazzo di chiavi restituito all’autista (seduto dietro), Brusca esitò un attimo a pigiare il bottone, ma l’attentato riuscì lo stesso.
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IL CELLULARE FANTASMA E LA TELEFONATA IN AMERICA
Un cellulare 0337 – sicuramente clonato – il giorno della strage chiamò più volte un numero americano, del Minnesota: lo 001.612.77746***. Alle 15:17, per 40 secondi; alle 15:38, per 23 secondi; alle 15:43, addirittura per 522 secondi.
Dalle indagini è emerso che sarebbe stato Antonino Gioè (morto stranamente suicida in carcere) a chiamare. Ma chi rispondeva dagli Stati Uniti? Le indagini non hanno risolto questo giallo.
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IL FOGLIETTO DEI SERVIZI
Sulla collina da dove Brusca aziona il telecomando fu trovato un foglietto, repertato dalla scientifica dopo la strage. Esso contiene annotazioni riconducibili all’indirizzo Sisde di Roma e al numero del capocentro del Sisde di Palermo. In particolare l’utenza telefonica sarebbe dello 007 Lorenzo Narracci (braccio destro di Bruno Contrada), che abitava in via Fauro a Roma, teatro della strage del ’93.
Perché? Come ci è finito lì quel foglietto? C’è scritto anche “via Pacinotti“, conosciuta a Palermo come sede della SIP (oggi Telecom). Tenete a mente questo particolare per dopo. Infine, l’annotazione “guasto n. 2” che significherebbe “cellulare clonato”.
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I GUANTI, LA TORCIA E IL DNA DI UNA DONNA
A soli 63 metri dal cratere di Capaci sono stati trovati: una torcia, un tubetto di mastice marca Arexons e due guanti in lattice (reperti “4A” e “4B“). Dalla batteria della torcia si è trovata un’impronta – quella dell’indice della mano destra – di Salvatore Biondo, uno dei boss condannati per la strage.
Sul “Reperto 4A” tracce di DNA maschile che ad oggi non hanno un riscontro. Non apparterrebbe a nessuno dei mafiosi condannati per la strage, e nemmeno a Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro“, l’ex poliziotto (morto ad agosto 2017) sospettato di essere un killer di Stato.
Dai guanti poi è stata isolata una traccia di DNA femminile. Per gli esperti che hanno analizzato le prove, assieme a Biondo vi era qualcun altro: “I risultati mostrano chiaramente un profilo misto derivante da almeno tre individui diversi dove però la componente attribuibile ad uno o più soggetti di sesso femminile risulta essere maggiormente rappresentata”.
È difficile pensare che i mafiosi a Capaci abbiano portato una donna con loro. Ma anche per le stragi del 1993 ci sono segnalazioni in merito: in via Palestro (a Milano) i testimoni hanno riferito di una “donna bionda sui 25 anni e di un uomo sui trent’anni”. La donna “poteva anche portare una parrucca”. E ancora un altro identikit: “Un uomo con i capelli lunghi, raccolti, e una donna bionda, indicati da due testimoni pochi minuti prima dell’arrivo dei vigili urbani e dei vigili del fuoco, a bordo di una Fiat Uno grigia, nello stesso luogo dove è stata posizionata l’auto per l’attentato”.
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IL FURGONE BIANCO
Come ribadito recentemente dal pm Nino Di Matteo, alcuni testimoni hanno messo a verbale che nei giorni prima del 23 maggio c’erano finti operai della SIP in tuta che effettuavano dei lavori dove poi Falcone sarebbe saltato in aria. Chi erano quegli uomini? Un testimone li ha visti armeggiare con dei cavi. Di questo furgone bianco, probabilmente un Ducato, non si sa nulla.
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LE FOTO SCOMPARSE
Dopo il botto «Falcone aveva ancora gli occhi semi-aperti. Scattai delle fotografie che furono subito sequestrate da due agenti in borghese dei servizi segreti. Di queste fotografie non c’è più traccia. Sono state fatte sparire. Una cosa scandalosa». La denuncia è di Antonio Vassallo. Il fotografo residente della zona di Capaci fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell’attentato mafioso.
«Dopo aver scattato le foto due tizi mi sventolarono un tesserino in faccia e, dopo avermi strattonato, mi obbligarono a consegnare il rullino. Glielo diedi convinto di poter dare una mano alle indagini… Dopo anni di silenzio decisi di andare a raccontare tutto a Ilda Boccassini (che indagava sulla strage, ndr). Lei cadde dalle nuvole sentendo la mia storia: del rullino non c’è più traccia. Il giorno fui convocato dal questore Arnaldo La Barbera che si scusò dicendomi che il ritardo era dovuto al fatto che l’agente aveva dimenticato il rullino in tasca. Ma le foto non arrivarono mai alla procura di Caltanissetta. Non sono più saltate fuori».
Di Arnaldo La Barbera oggi sappiamo che era al libro paga Sisde, nome in codice Rutilius, ed è considerato tra gli autori del depistaggio sulla strage di via D’Amelio e della gestione del falso pentito Scarantino.
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I DIARI DI FALCONE
Gioacchino Genchi ha dimostrato che dopo la strage qualcuno aprì il personal computer Olivetti e l’agenda elettronica Casio SF 9000 di Falcone. «Sicuramente vi era stato un accesso fraudolento al computer e la cancellazione altrettanto fraudolenta del file». Sappiamo che contenevano appunti su Gladio. Ma degli altri appunti non si sa nulla. Sono stati cancellati.
Il pm Giuseppe Ayala il 20 giugno 1992, rivela: «Falcone aveva un diario puntualissimo, della cui esistenza ha messo a conoscenza soltanto me e, forse una volta, Paolo Borsellino; in quel diario scriveva tutto». Ayala poi fu tra i primi ad arrivare in via D’Amelio; le sue versioni sulla borsa e l‘agenda rossa di Paolo Borsellino sono considerate contraddittorie da Fiammetta Borsellino.
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LE PAROLE DI RIINA
Infine, nel 2013, Totò Riina (inconsapevole di essere intercettato in carcere a colloquio con Lorusso) disse che “se fosse circolata la piena verità sulle stragi sarebbe stata la fine di cosa nostra”. Cosa intendeva? Quali sono le persone importanti che secondo il pentito Cancemi, in quel periodo incontravano Riina?
In sostanza chi sono, e che ruolo hanno avuto nelle stragi, le menti raffinatissime già individuate da Falcone come i veri ispiratori e autori del fallito attentato all’Addaura?
Misteri tutti da chiarire.