La forte connessione tra mafia, settori dell’imprenditoria, pubblica amministrazione e politica era, già all’indomani dell’Unità nazionale, una realtà ben consolidata. Diverse sono, per esempio, le carte processuali e i documenti della seconda metà dell’ottocento in cui emergono connivenze tra mafiosi e funzionari piemontesi.
Tanti sono gli esempi e le vicende che si potrebbero ricordare. Un episodio interessante, per comprendere la forza militare della criminalità organizzata, già negli anni sessanta del XIX secolo, è certamente l’insurrezione antiunitaria scoppiata a Palermo nel 1866. Ricordiamo che in quel periodo il prefetto di Palermo era Filippo Antonio Gualterio, che per primo avrebbe usato in un documento ufficiale del neonato Stato italiano, precisamente in un rapporto del 1865, il termine “maffia“, attribuendogli il significato odierno. Ebbene, molto probabilmente nella rivolta del 1866, oltre a repubblicani, autonomisti e a qualche borbonico, presero parte anche squadre di “picciotti”.
Per quanto riguarda il rapporto tra mafia e istituzioni, è certamente illuminante l’inchiesta che oppose il procuratore di Palermo, Diego Tajani, al questore Giuseppe Albanese. Quest’ultimo venne accusato di utilizzare sistematicamente soggetti di Cosa Nostra per controllare più efficacemente il territorio e per tenere a bada gli ambienti radicali e borbonici. Ma anche per combattere frange della criminalità organizzata non molto propense a collaborare con le istituzioni. Albanese, inoltre, godeva dell’appoggio del prefetto Giacomo Medici. Questo scontro tra funzionari dello Stato avvenne dopo la rivolta del 1866, in un contesto politico e sociale molto difficile per la città di Palermo, martoriata anche dall’epidemia di colera, scoppiata nel 1867.
Il questore Albanese era pienamente convinto dell’importanza e dell’efficacia di utilizzare mafiosi che lavorassero per gli organi di polizia. Addirittura, nel febbraio del 1869, rischiò di essere ucciso da un mafioso che ostinatamente non intendeva collaborare con le forze dell’ordine. Insomma, il modo di operare di Albanese era ben noto. E Tajani cercò di porvi fine, disponendo un mandato di arresto nei suoi confronti. Ma il provvedimento venne bloccato addirittura dal ministro dell’Interno, nonché presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Lanza.
Nonostante questo intervento dall’alto, che la dice lunga sul livello di connivenze tra Stato e mafia, Tajani decise comunque di pubblicare la sua requisitoria sull’uccisione di due mafiosi, voluta dallo stesso questore. Un omicidio nel quale era coinvolto il capo mafia di Monreale Salvatore Lo Biundo, agricoltore benestante e comandante della Guardia nazionale.
Dopo la pubblicazione della requisitoria di Tajani scoppiarono polemiche al veleno, accuse di ogni tipo e di ogni livello e forti tensioni. Tajani, che aveva cercato, forse ingenuamente, di rompere l’accordo tra mafia e settori delle istituzioni, si ritrovò a combattere contro i mulini al vento e alla fine, paradossalmente, fu costretto a rassegnare le dimissioni dalla magistratura. Invece, il questore Albanese, tanto amico dei mafiosi, venne sì rimosso dal suo incarico ma venne promosso. Tajani in un suo intervento al Parlamento sottolineò che “la mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé” ma che forse lo diventa nei fatti “perché è strumento di governo locale“.
Lo storico Salvatore Lupo, grande esperto e conoscitore della storia della mafia, ha prestato molta attenzione agli intrecci profondi tra Cosa Nostra, alcuni ambienti della borghesia industriale e imprenditoriale e lo Stato, nella seconda metà dell’ottocento. Il professore ha sottolineato che la presenza della mafia sia stata più rilevante nella Sicilia occidentale, soprattutto a Trapani e Palermo e di come “nell’area costiera, economicamente più progredita, si veniva a creare un rapporto tra floridezza commerciale e produzione di delitti, tra un’economia moderna e un’endemica infezione mafiosa”.