A volte l’anticonformismo viene bollato come follia da chi non sa o non vuole guardare oltre. Forse, si sta sempre più perdendo la capacità di essere originali, unici, irripetibili e ci si dimentica che l’omologazione, l’uniformità intellettuale e di pensiero uccidono la fantasia, quindi la possibilità di creare il nuovo. Si pensa che la ragione possa svelare ogni mistero della vita. Si cerca, attraverso la scienza, di controllare ogni cosa, anche la natura.
Quanta ingenuità e quanta aridità c’è nell’esaltazione sfrenata della tecnica? Quanto mal posta è la cieca fiducia nei confronti della ragione?
Che l’universo sia caos e che l’uomo sia fatto anche di sogni e sentimenti, lo sapeva benissimo pure il principe di Palagonia Ferdinando Francesco II Gravina, un uomo rimasto nella memoria, in quanto artefice di un’opera sicuramente originale e ai suoi tempi incomprensibile, a tal punto da essere ritenuto un pazzo: la Villa dei mostri di Bagheria.
Il primo nucleo della villa risaliva al 1715 e fu realizzato dal nonno del principe di Palagonia ma sarà quest’ultimo a rendere il complesso a dir poco particolare, infatti le “stravaganze” di cui parlerà anche Goethe, erano molteplici: negli spazi interni l’arredamento era a dir poco singolare, per esempio si trovavano sedie inutilizzabili, i cui piedi erano stati segati oppure vi erano specchi sovrapposti che restituivano riflessi deformati e infiniti. Le statue e le sculture mostruose, grottesche e surreali riempivano gli spazi interni così come il parco circostante.
Molti furono gli artisti, gli intellettuali e i poeti che nel “Grand Tour” andarono a visitare la villa di Bagheria uscendone terrorizzati, disgustati e increduli. Neppure il “grande” Goethe, che visitò la villa nell’aprile del 1787, riuscì a comprenderne il significato, rimanendone sbalordito per l’insensatezza, credendo che il principe di Palagonia fosse un pazzo e la sua villa un manicomio, un posto nato dalla mente di uno squilibrato.
Eppure, il principe non era né pazzo né tanto meno stupido. Egli nacque il 25 Novembre 1722, da Ignazio Sebastiano Gravina e Lucchese e da donna Margherita Alliata, figlia del principe di Villafranca. Il 16 Marzo 1747 sposò Maria Gioachina Gaetani e Buglio, ottenendo da questo matrimonio il principato di Lercara e il marchesato di Bifora. Tra l’altro poteva vantare una serie di titoli ed onori: fu Grande di Spagna di prima classe, cavaliere dell’Ordine di san Gennaro, presidente della Compagnia dei Bianchi, ciambellano del re di Napoli, Sicilia e Spagna. Insomma, fu un uomo abile, in grado di ricoprire vari incarichi di prestigio, in grado di aumentare le proprie ricchezze e il proprio potere, sicuramente non uno sprovveduto.
Ma allora che senso ha la villa Palagonia? Perché spendere parte considerevole del proprio patrimonio e dedicare così tanto tempo in un’opera simile che avrà fine solo con la sua morte, rimanendo quindi incompiuta?
È bene ricordare che questi sono i decenni in cui il pensiero illuminista, nato in Francia, si diffondeva per gran parte d’Europa, gli anni in cui nei salotti francesi Diderot e Voltaire esponevano le proprie idee, il tempo in cui si affermava l’enciclopedismo. Il tempo dei Lumi, è quello in cui l’uomo pone al centro la ragione, consapevole del limite di quest’ultima ma nonostante ciò desideroso di dare ordine al caos universale e di imbrigliare la realtà in categorie razionali e logiche. In sostanza gli illuministi riponevano piena fiducia nell’ ”Intelletto”, in grado di condurre l’uomo verso il sapere e l’interpretazione del mondo. Ma il principe di Palagonia, cosciente che gran parte dell’umanità viveva in una condizione di miseria, sofferenza e sopraffazione, pur essendo egli stesso un privilegiato, non poteva non provare disgusto verso l’umanità e sfiducia verso Dio, quindi scetticismo nei confronti della ragione e nei confronti della fede. Come esprimere questa posizione critica contro l’uomo e Dio senza mettersi nei guai? Il modo più semplice era celare la sua disillusione nella mitologia, nell’irrazionalità, in un mondo fantastico, surreale e quindi percepito,soprattutto dai contemporanei ma anche dai posteri, come uno spazio inquietante, frutto della fantasia di un folle.
Un contemporaneo del principe, il marchese di Villabianca, riuscì a comprendere il significato dell’opera scrivendo “il tutto in sostanza è sogno di un febbricitante; il tutto è favola, e il tutto oggetto di sganasciar dalle risa. Quid rides? De te fabula narratur”, “Di che ridi? La favola parla di te”, cioè le stranezze, la mostruosità e il disordine presente in villa Palagonia si riferiscono all’orrido generato dall’uomo e al disordine del cosmo creato da un Dio creatore.
In sostanza il principe Gravina si distaccò dall’Illuminismo, dominante nel suo tempo, dal conformismo della religione, della scienza e del pensiero, diventando, attraverso i suoi mostri, portatore di ansie, angosce, smarrimenti e inquietudini tipicamente romantiche. Caratteri di quella stessa età romantica di cui Goethe fu protagonista, ma che non riuscì a leggerne la presenza nell’affascinante villa dei mostri di Bagheria.