Le “primarie” per l’elezione del segretario nazionale del Partito Democratico si sono concluse con la netta vittoria di Nicola Zingaretti sugli altri due candidati.
La sua vittoria era nell’aria poiché, al di là delle correnti, ha saputo cogliere e interpretare lo stato d’animo di tanti militanti ed elettori confusi e smarriti già all’indomani della cocente disfatta elettorale che aveva visto drasticamente ridimensionati i consensi elettorali.
La cosiddetta area del centro sinistra, estranea alle beghe correntizie, si è mossa spontaneamente, preoccupata in primo luogo del futuro del Paese, della sua regressione economica, civile e culturale. Da qui la massiccia partecipazione al voto, che ha sorpreso lo stesso PD, riconoscendo a Zingaretti, rispetto agli altri due contendenti una maggiore affidabilità, equilibrio e capacità politica per superare la crisi e l’immobilismo in cui versa il partito.
Le primarie, in verità, si erano svolte un po’ in sordina, in un clima d’indifferenza, quasi che riguardasse solo il ceto politico. Probabilmente sarà stata negli ultimi giorni la grande manifestazione di Milano che ha parlato all’intero paese e il discreto risultato delle elezioni in Sardegna che ha ridato un po’ di fiducia. Hanno influito anche il moltiplicarsi di atti di razzismo, i rigurgiti di stampo fascista e infine le difficoltà del governo grillino-leghista, che hanno fatto scattare la molla della partecipazione e di contribuire con il voto alla ripresa di un partito che, nonostante errori e insufficienze, rimane essenziale per l’equilibrio democratico del paese.
Il congresso, conclusosi con le primarie, non ha tuttavia sciolto i nodi politici su cui si è bloccato il PD e da questo punto di vista non vi è stato nel merito alcun confronto fra i candidati.
Il dibattito è stato sotto tono, viziato da un eccesso di provincialismo, scadendo spesso in una resa dei conti interni, rimpallandosi le responsabilità della crisi del partito.
Di fronte ai rivolgimenti politici che stanno attraversando il mondo, alla crisi delle società e delle democrazie occidentali, non è emersa un’idea, un progetto di riforma sul piano sociale, economico e istituzionale. Di fronte alle nuove Destre che si sono affermate in Europa e nel mondo, al proliferare dei populismi, non basta solo denunciarli perché sporchi brutti e cattivi. Essi, infatti, rispondono a sentimenti, modi di pensare che hanno contagiato anche ceti popolari.
Non basta, poi, dichiararsi fieramente europeisti se questa Europa è vissuta come un corpo estraneo e perfino ostile. Quale nuova idea di Europa, quale riforma il PD propone?
Non emerge, infine, sul piano interno una riflessione seria e rigorosa sulle cause della crisi del PD che ha origini lontane, fin dalla sua nascita.
Fu il frutto, infatti, di una fusione a freddo, di una sommatoria tra un partito erede del PCI, (PDS, DS) e una componente, seppure importante, erede della DC, che aveva dato vita alla Margherita.
Un’operazione politica priva di un ancoraggio culturale, sempre alla ricerca di una sua identità che, a parte un serio tentativo di Prodi, emarginato dallo stesso partito, consentì a Berlusconi di governare per oltre venti anni, sconfitto non a caso solo da Prodi.
Il Renzismo fu una risposta a quella crisi e alle difficoltà di quel gruppo dirigente guidato da Pier Luigi Bersani. Renzi vinse, infatti, le primarie due volte con grandi consensi perché rappresentava la novità e una discontinuità con un vecchio modo di fare politica che suscitò attese e anche entusiasmi.
I risultati, com’è noto, sono stati disastrosi! Tuttavia, invece di interrogarsi con un’analisi rigorosa sulle cause della sua rapida ascesa e del suo altrettanto rapido declino, si è preferito dividersi tra chi considera il Renzismo la causa di tutti mali e chi pensa al contrario, che le difficoltà risiedano nel suo abbondono.
L’esperienza di Renzi è ormai una pagina da archiviare, da consegnare alla storia e ai politologi, che ha chiuso una fase della storia del PD.
Oggi siamo di fronte a sfide inedite per le forze progressiste, in un mondo e in una società che cambiano rapidamente.
E su queste sfide Zingaretti dovrà misurarsi. Non basta, infatti, cambiare le persone, occorre cambiare il partito. Quale è la forma partito, la struttura che ha in mente? Quale il ruolo degli organismi e il rapporto con gli eletti? Quale spazio avranno i territori e il peso che dovranno esercitare iscritti ed elettori?
Torna, inoltre, il tema delle alleanze. Tramontato il bipolarismo e ogni vocazione maggioritaria, per essere credibili come portatori di un’alternativa politica occorre costruire un sistema di alleanze prima ancora sia sul piano sociale. Individuare quali sono i riferimenti sociali che il PD vuole rappresentare in una società in cui le classi si sono scomposte e frammentate dando spazio all’individualismo e al corporativismo. Questo significa tutelare, a differenza di Renzi che privilegiava il rapporto diretto tra il leader e la società, valorizzare la funzione dei corpi intermedi, essenziali per il funzionamento di una democrazia in una società complessa.
Infine l’Autonomia differenziata, poiché sarà difficile impedire alle regioni più ricche e avanzate del nord di recedere da questa richiesta.
E se non si vuole determinare uno squilibrio e una frattura non solo territoriale, ma anche economico e sociale sarà necessario intervenire anche sulla riforma della Costituzione.
Il vero congresso quindi comincia ora! Buon lavoro a Nicola Zingaretti.