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“Intervista immaginaria al poeta Dino Campana”: uno sguardo all’ultima biografia scritta da Gianni Turchetta

lunedì 15 Giugno 2020

Ecco davanti a me un uomo arruffato, mal vestito, con i capelli rossicci e ricciuti. Le sue gambe hanno solcato immensi spazi: è stato un vagabondo per il mondo, un esule nella sua stessa patria, un matto rinchiuso al manicomio dove poi vi è morto. È stato un poeta: Dino Campana, autore dei “Canti Orfici”. Un’esistenza esemplare, tragica, su cui è stato fatto più di un film (“Il più lungo giorno”, diretto da Roberto Riviello e “Un viaggio chiamato amore”, diretto da Michele Placido), biografie romanzate, biografie che non avrebbe voluto, tesi di laurea, studi accademici. Ed è stato certamente rivalutato post mortem, mentre in vita, il suo primo manoscritto in unica copia andò perduto dall’intellighènzia dei salotti letterari del suo tempo. Oggi la sua vita è di nuovo in libreria, grazie a Gianni Turchetta, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Milano, già autore di “Dino Campana. Biografia di un poeta”, in una nuova formula ripensata, arricchita e più corposa. Si intitola “Vita oscura e luminosa di Dino Campana poeta”, edito da Bompiani. Chissà se, ritornando a un altro film a cui questa rubrica si ispira, il poeta avrebbe potuto fare parte, solidale nelle zingarate, di quell’allegra brigata degli “Amici miei”, vagabondi dello spirito come lui; come loro, del resto era toscanaccio; come loro, triviale. O magari sarebbe stato oggetto di canzonatura da parte di quella combriccola di amiconi: avrebbero potuto coinvolgerlo in un’inverosimile e falsa lotta contro i marsigliesi. Ma una cosa è certa: Campana ci sarebbe arrivato, non solo dai marsigliesi, ma dritto fino a Marsiglia e oltre, anche a piedi, in preda alla sua dromomania (mania della corsa, della velocità). Ma un poeta, in fondo, è sempre un solitario. E qui, dove sullo sfondo c’è il panorama scheletrico del mondo, lo incontro in un punto senza tempo.

Campana, si sarebbe aspettato tutta questa fama dopo la morte, ben oltre cento anni dopo il suo internamento nel manicomio che segnò la fine della sua vita, nonostante la morte sia sopraggiunta solo nel 1932?

«Non avevo alcun dubbio. Ero bello di tormento, un sacrilego angelo biondo, l’ultimo tedesco in Italia. La scrivo tutta io la stampa, ho inventato io la macchina di introspezione. Mi chiamo Dino, Dino Edison».

Su di lei si è detto di tutto. Anche che fosse una sorta di Rimbaud italiano, un ‘maledetto’, un pazzo e, come tale, facilmente associabile alla poesia.

«In questo Turchetta ribadisce il tentativo di vedere invece la mia opera come un qualcosa di compiuto e razionale. La luce, il barlume della poesia è stata una forma di resistenza alla follia e alle ombre che incombevano. La mia opera è lucidissima, sebbene affondi nelle verità delle tenebre del mondo e del cuore umano. La luce e le tenebre, la partenza e il ritorno, la tristezza più profonda nella più profonda felicità. C’è il superamento, il ponte di Nietzsche, il caos che ha partorito la mia ‘stella danzante’, la mia opera».

La perdita del manoscritto – poi ritrovato nella casa di Soffici nei primi anni ’70 – che si intitolava “Il più lungo giorno”, la sottopose allo stress di doverlo riscrivere e nacquero così i “Canti Orfici”. Il primo manoscritto, consegnato a Papini, fu poi da lui consegnato a Soffici. Quest’ultimo lo perdette dentro la propria abitazione. Alle sue legittime richieste di spiegazioni, lei, Campana, venne preso per pazzo, dileggiato, ma aveva ragione…

«Questo la dice lunga sullo snobismo degli intellettuali che coltivano le arti – che dovrebbero invece parlare dell’uomo all’uomo – come trofei da esibire. Del resto, Papini fece un’arringa, un proclama a difesa del primo conflitto mondiale, mentre io, il pazzo, dissi, “sembra già enormemente stupida e ridicola l’idea di un miracolo nazionale prodotto dal meccanismo della guerra”. Chi aveva ragione? Chi era il folle in questo caso?».

Se dovesse consigliare un motivo perché i lettori si avvicinino a questa nuova biografia su di lei, da cosa comincerebbe?

«I motivi sono tanti. Comincerei dal fatto che sia una biografia puntuale con note critiche, con i riferimenti di eminenti studiosi e con un fitto corredo di documenti: chi vorrà studiare la mia opera in modo compiuto, dovrà avvicinarsi a questo testo; dal fatto che si agganci al mio destino come uomo. E dal fatto che la mia biografia, nonostante la follia e la mia visione dell’infinita occhiuta devastazione della notte tirrena, non prescinda dalla mia opera. Senza quella non sarei stato nessuno: era la mia patente, il mio certificato dell’essere su questa terra; e, in ultimo, per la mia verità di esistenza che non è soltanto dolore ma accettazione del fato, perché “ogni fenomeno è di per sé sereno”. Per questo parla a tutti gli uomini, soprattutto dei vostri tempi. Sono stato l’emarginato, il disoccupato, il migrante, l’esule, in cui ogni uomo, forse ancora di più quello di oggi, si potrebbe specchiare. L’uomo che gli altri non volevano avvicinare, e che, nonostante tutto, ha detto che la verità stia dentro le cose e così l’infinita bellezza del mondo».

Vorrei dire tanto altro a Campana, tutto quello che mi ha suggestionato. Per esempio, di quanto questa sua ricerca mi appaia opposta e speculare a quella di un altro scrittore, lo statunitense J.D. Salinger che ebbe così tanto successo in vita con il romanzo “Il giovane Holden”, da ritirarsi in solitudine, quasi come forma di protesta al sistema. Un Salinger che non si identificò più nell’effimera parvenza del suo nome stampato su un libro, e, nonostante la fama e il denaro, scelse una forma di eremitaggio dedita alla scrittura come annullamento Zen del Sé. Ma l’uomo ricciuto e trasandato, il vagabondo, il pazzo si è dissolto, lasciandomi attorno questo panorama scheletrico del mondo e un’infinita occhiuta devastazione della notte che mi ammorba, mi ubriaca. Sono come sospesa, in bilico su un precipizio. Ma la sensazione che provo è quella del Sublime.

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