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La riflessione

La ragazza-buffet coperta di cioccolato e la violenza di gruppo: frutti della stessa pianta malata

giovedì 24 Agosto 2023

Una torta si mangia. Un bignè stracolmo di panna anche. Se lo assaggi e non ti piace lo getti. Un tempo c’erano (non so se ci sono ancora) le feste di addio al celibato con la ragazza che esce dalla torta ed è il regalo (in senso letterale, invece di una cravatta o di un sigaro) degli amici al futuro sposo. O le scene erotiche dei film tra panna e cioccolato fuso, stile 9 settimane e mezzo con Kim Basinger e Mickey Rourke davanti al frigorifero. E poi c’è un’adolescente di 14 anni (ed è questa la buona notizia, non abbiamo proprio rovinato tutto) che passando davanti al buffet dell’hotel a 4 stelle in Sardegna con una giovane in bikini coperta di cioccolato fuso in mezzo ai pasticcini,  attorniata dai cellulari di chi si fa la foto, che indignata dice al padre “che schifo papà l’Italia non è un Paese dove potersi realizzare”. E il papà manager non solo la ascolta (e già questa è notizia) ma esprime la sua indignazione con tanto di lettera ai gestori della catena di hotel e villaggi vacanze (e anche questa è una buona notizia, non tutto è perduto).

UNO SU MILLE CE LA FA

A indignarsi, ad alzare la voce. Anzi, due ed uno dei due ha persino 14 anni e non ha il naso sullo smartphone e non si è fatta il selfie con la quasi coetanea ricoperta di cioccolato e annunciata nei giorni precedenti come la sorpresa di Ferragosto. Persino i termini sono oggettivanti: statua di cioccolato. No, la ragazza in bikini in mezzo ai bignè non è una statua. Sicuramente lo staff d’animazione l’avrà scelta tra le più giovani e avvenenti perché sì, pur se coperta di panna deve evocare immagini sessuali, deve associare il gusto al desiderio. La ragazza in mezzo agli spiedini di frutta non è una statua, non è una sorpresa, non è il buffet. E’ una persona. Invece è finita lì come nelle degustazioni enogastronomiche delle eccellenze del territorio, come quando c’è un cannolo gigante e tutti coi cellulari cercano lo scatto migliore per il post sui social. L’episodio in sé ha avuto conseguenze, repliche e scuse della società, interventi di politici ed istituzioni e bla bla bla. Finirà archiviato insieme ai due euro spesi da un avventore per essersi fatto tagliare il toast.

LA PIANTA VELONOSA

E’ la fotografia, anzi il selfie di quello che stiamo diventando. La responsabilità è di tutti ma soprattutto della nostra generazione che ha perso le coordinate, che non è in grado di trasmettere non soltanto sistemi valoriali (qualsiasi, anche i più elementari) ma nemmeno l’abc dell’etica. Il caso ha voluto che la notizia sulla ragazza-buffet (in futuro potrebbe esserci la donna-sushi, la giovane-hambuger e l’adolescente-pokè bowl) si diffondesse negli stessi giorni degli arresti per lo stupro di gruppo a Palermo. All’apparenza potrebbe non esserci un nesso diretto tra i due fatti, anche perché coprire di cioccolato una donna e metterla sopra un tavolo alla mercè degli sguardi e dei telefonini di tutti non è reato. Invece non è così. E’ quell’humus sul quale si nutrono i semi di piante velenose, avvelenanti, letali. Una società che oggettivizza la donna in tutti i modi, in tutti luoghi, a tutte le età, è terreno fertile per reati terribili. Quando diciamo, e siamo tutti d’accordo, che lo stupro di gruppo è un problema culturale, siamo consapevoli che è un cambiamento complessivo che dobbiamo fare, partendo dalle radici. Se tutti noi siamo assuefatti a vedere il corpo della donna trattato come una cosa, non possiamo gridare all’orrore se un ragazzo, cresciuto e pasciuto con questi insegnamenti a-valoriali e senza nessun tipo di educazione sessuale se non quella delegata ai social, usa una sua coetanea come un oggetto e non prova alcuna empatia. Abbiamo messo una giovane donna in bikini in mezzo ai bon bon  esponendola ai selfie ed a pensieri che collegano il suo corpo al cibo (verbi come leccare, gustare, mangiare, mordere), lasciandola “nuda” alle riprese e ai commenti. Abbiamo innescato un meccanismo. Lo stesso meccanismo che in queste ore ha portato centinaia di persone a cercare su Telegram (in due gruppi privati) il video di 20 minuti sullo stupro, con gente disposta a “pagare bene” pur di averlo. Lo stesso meccanismo che sta portando la Polizia Postale alla ricerca di gruppi privati, profili fake nei quali sta uscendo di tutto e il Garante della privacy a mettere uno stop. Persino noi giornalisti siamo incappati nel diffondere come notizie reali quelle del post attribuito al minore scarcerato e mandato in comunità che su Tik tok scriveva “chi vuole uscire con me stasera”. Amici e nemici degli stupratori (sì lo so dovrei scrivere presunti per rispetto della normativa in materia), dicevo, amici e nemici degli stupratori, hanno creato falsi profili, diffuso notizie vere e false, mischiando nero, bianco e facendo sì che la vittima diventasse mille volte vittima al punto che oggi si sa chi è. Vittima di uno stupro di gruppo che ha la stessa età, più o meno della “statua di cioccolato” che è, in modo ovviamente diverso, vittima anche lei di un sistema. E non lo so fino a che punto possiamo dire che la ragazza coperta di cioccolato sotto gli occhi di tutti che la guardavano era davvero consenziente. Non lo so il termine consenziente in tempi di stipendi da fame se si può davvero utilizzare.

DI CHI E’ LA COLPA?

Posto che siamo tutti d’accordo che lo stupro di gruppo riguarda anche chi ha  ripreso (istigando o meno), o si è messo in disparte (ma non è intervenuto), come la mettiamo con una società che questo video lo sta cercando, che sta divorando le chat e le intercettazioni, che è disposto a pagare pur di vedere la vittima violentata e a terra nel sangue? La colpa è esclusivamente dei genitori? Chi ha allevato queste persone? Che società ha allevato adolescenti e post adolescenti privi di empatia incapaci di considerare la donna una persona e di rapportarsi con il sesso in modo sano? Gli ultimi femminicidi non sono cavernicoli di mezza età espressione di un maschilismo duro a morire. Sono giovani. Sono i frutti di una pianta malata che NOI abbiamo seminato, innaffiato, concimato, quando eravamo distratti, quando pensavamo che fare i genitori volesse dire essere amici, dire sempre sì, o ancora quando da educatori non abbiamo educato, li abbiamo lasciati soli davanti a schermi di vari tipo, delegando ad una scuola che non forma più neanche i docenti (o che li recluta tra quanti non hanno la missione o l’ambizione o il sogno di fare questo ma solo la necessità di avere uno stipendio). Noi che abbiamo lasciato che i nostri figli sparassero in classe ai docenti o siamo stati noi stessi di fronte ad un brutto voto a picchiare il professore perché il nostro pargolo non deve patire ostacoli deve avere la strada spianata anche sui corpi dei docenti.

Quando ci diciamo che è un problema culturale esattamente come lo vogliamo risolvere? Scrivendo un libro? Partecipando a un talk show? O andando finalmente di nuovo per strada in tutti i modi in tutti i luoghi dove i nostri figlie e le nostre figlie crescono e dove noi viviamo e agiamo, ristabilendo l’equilibrio e tornando a parlare (oddio) di amore, di sentimenti e di valore della persona. Mandiamo in onda la pubblicità sugli assorbenti a tutte le ore eppure non siamo in grado di parlare di educazione sessuale nel vero senso del termine, educazione civica, educazione umana, facendo anche corsi serali e straordinari per le famiglie.

Potremmo iniziare dalla figlia del manager in vacanza di Sardegna, che a 14 anni, è stata l’unica ad indignarsi. Lei è il nostro futuro.

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