Nel nostro Paese infatti, dove i boschi coprono ben il 37% del territorio nazionale, si osservano ormai da anni fenomeni di disseccamento e moria soprattutto tra gli alberi del genere Quercus. Secondo lo studio pubblicato dal “Journal of Silviculture and Forest Ecology, ad essere colpite non sono solo le querce dei boschi continentali, ma anche le specie mediterranee come la Quercus ilex (leccio), Quercus suber (sughera). I sintomi sono inequivocabili: chiome avvizzite, rami secchi, defogliazione, necrosi radicale e germogli anomali.
In molti casi, si arriva alla morte completa della pianta.
Questo fenomeno, noto come deperimento delle querce, è una sindrome complessa, frutto dell’interazione tra fattori climatici, ambientali e biologici. Ma la siccità prolungata si conferma, in molti casi, come l’innesco principale.
I primi segnali allarmanti si sono registrati nei boschi del Nord-Est, dove specie come Quercus robur e Quercus petraea hanno cominciato a mostrare chiari segni di sofferenza. Con il tempo, però, la crisi ha raggiunto anche il Centro e il Sud Italia, interessando in particolare il cerro (Quercus cerris), la roverella (Quercus pubescens) e il farnetto (Quercus frainetto).
Un caso emblematico è quello del Parco Nazionale del Pollino, dove intere porzioni di foresta mostrano un deperimento diffuso.
Gli ultimi anni hanno visto un preoccupante peggioramento della situazione. Il numero di segnalazioni è triplicato rispetto al passato, e gli eventi climatici estremi si sono fatti più frequenti.
Basti ricordare l’estate del 2017, quando in molte aree del Centro-Sud le piogge sono mancate per oltre tre mesi e le temperature hanno superato di 8 gradi la media stagionale.
Il risultato? Soprassuoli forestali fortemente indeboliti e interi popolamenti decimati.
A livello fisiologico, la sofferenza degli alberi si manifesta in due modalità principali, la prima è la disfunzione idraulica, che compromette il trasporto dell’acqua per via di embolie nei vasi xilematici, e la fame di carbonio, causata dalla chiusura degli stomi, ovvero i pori delle foglie, per limitare la perdita d’acqua. Questa strategia di sopravvivenza, però, impedisce anche la fotosintesi, riducendo drasticamente l’accumulo di carbonio necessario alla crescita e al mantenimento della pianta.
A complicare il quadro c’è la distribuzione disomogenea del fenomeno. I disseccamenti si manifestano spesso a macchia di leopardo, influenzati da fattori locali come la tipologia del suolo, l’esposizione solare o la pendenza del terreno. Questa variabilità rende difficile mappare con precisione l’estensione del problema e ostacola la pianificazione di interventi efficaci.
Il 2024 ha rappresentato un punto di svolta nella percezione pubblica della crisi forestale. L’estate è stata particolarmente torrida, soprattutto nell’Italia centro-meridionale, dove le alte temperature e le numerose “notti tropicali” hanno provocato un’ondata di disseccamenti senza precedenti nelle leccete.
Restano però ancora delle incognite. La reale estensione del fenomeno e le sue implicazioni per la conservazione delle foreste mediterranee sono tuttora poco chiare. Quel che è certo, però, è che le nostre querce stanno lanciando un grido d’allarme. Ascoltarlo e quindi agire di conseguenza è ormai una necessità.
Boschi in crisi sull’Etna: il caldo estremo colpisce le querce della Sicilia
Nell’estate del 2024, la Sicilia ha vissuto una delle stagioni più difficili per i suoi ecosistemi forestali. In particolare nella parte orientale dell’isola, ondate di calore estremo e una prolungata assenza di precipitazioni hanno causato estesi disseccamenti nelle formazioni boschive mediterranee.
Le specie più colpite? Appunto il leccio (Quercus ilex), la quercia pubescente (Q. pubescens) e numerose specie arbustive tipiche della macchia mediterranea.
Le manifestazioni più gravi si sono concentrate tra la seconda metà di luglio e agosto sul versante occidentale dell’Etna, in provincia di Catania. Le aree di Monte Peloso, Monte Tre Frati e Monte Minardo, situate tra i 1200 e i 1300 metri di altitudine nei comuni di Adrano e Bronte, hanno mostrato i segni evidenti di una crisi forestale, interi popolamenti di leccio sono apparsi disseccati, in un’area di oltre 100 ettari di elevato valore naturalistico e paesaggistico. Un dato particolarmente allarmante, anche perché lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2021.
Monte Minardo, in particolare, è noto per ospitare comunità vegetali di rilevanza fitogeografica, rendendo l’impatto degli eventi climatici estremi ancora più significativo sul piano ecologico.
Segni di stress idrico-termico sono stati osservati anche a quote più basse, attorno ai 300 metri s.l.m., nel “Bosco di Santa Maria La Stella” ad Aci Sant’Antonio. Qui, specie come Quercus virgiliana, Q. congesta, Fraxinus ornus e Celtis tournefortii hanno mostrato ingiallimenti fogliari e disseccamenti diffusi. In alcuni casi, anche giovani esemplari di Q. pubescens sono stati colpiti.
Situazioni simili sono emerse anche in altri contesti boschivi del versante sud-est dell’Etna, come nei boschetti relitti di Q. ilex a Monte Ilice (Trecastagni) e nei nuclei misti di leccio e roverella a Monte Ceraulo (Mascalucia).
La crisi non ha risparmiato la provincia di Siracusa. Nella località di Mandredonne, presso Palazzolo Acreide (circa 600 metri di altitudine), il 60% dei popolamenti di leccio ha mostrato segni di disseccamento. Anche arbusti tipici come Pistacia lentiscus e Phillyrea angustifolia hanno manifestato sintomi simili, sebbene in modo più contenuto. All’interno della Riserva Naturale Orientata “Pantalica, Valle dell’Anapo e torrente Cavagrande”, a quote più basse, il fenomeno ha interessato circa il 40% del soprassuolo forestale, con danni visibili su leccio, quercia pubescente e Phillyrea.
Un altro episodio rilevante è stato registrato a Frassino, nel comune di Buccheri (SR), dove formazioni di sughera (Quercus suber) hanno riportato disseccamenti fino al 60% della chioma.
Nel resto dell’isola, i danni sono stati più circoscritti. Si segnalano alcuni episodi isolati di disseccamento della sughera nel bosco della Ficuzza e di Fagus sylvatica a Piano Battaglia, nel Parco delle Madonie (Palermo).
Cosa accomuna le aree più colpite? In molti casi si tratta di suoli di origine vulcanica, poveri in termini di capacità di trattenere l’umidità. Questo aspetto, unito all’intensificarsi delle ondate di calore, ha probabilmente reso le piante più vulnerabili.
La sughera, ad esempio, ha mostrato danni più evidenti in esemplari da poco sottoposti a decorticazione, una pratica tradizionale che può rendere temporaneamente più fragile l’albero. Nonostante l’entità dei disseccamenti, le indagini preliminari condotte sul campo non hanno rilevato la presenza di patogeni o insetti che possano spiegare i fenomeni osservati. Questo porta gli esperti a ritenere che la causa principale sia da attribuire allo stress abiotico, ovvero legato esclusivamente a fattori climatici come la carenza d’acqua e il caldo eccessivo.
Tuttavia, non si esclude un possibile coinvolgimento secondario di agenti patogeni, già noti per la loro capacità di sfruttare alberi indeboliti dallo stress ambientale. Saranno quindi necessarie ulteriori ricerche per comprendere pienamente l’origine dei disseccamenti e mettere a punto strategie di gestione e prevenzione, in un contesto climatico che, anno dopo anno, si fa sempre più ostile per le foreste mediterranee dell’isola.
L’impatto sui boschi mediterranei
Il clima del Mediterraneo, da sempre sinonimo di equilibrio e biodiversità, sta diventando sempre più ostile. Quella che un tempo era una delle culle ecologiche più preziose del pianeta oggi si trova in una posizione di estrema vulnerabilità. Secondo numerosi studi internazionali, l’area mediterranea è uno dei principali hotspot globali del cambiamento climatico, ovvero uno dei territori più esposti agli impatti del riscaldamento globale.
L’aria si fa più calda, le piogge più rare e discontinue, le estati più torride e prolungate. In questo scenario, anche le piante da sempre considerate simbolo di resistenza, come il leccio o la quercia da sughero, iniziano a cedere.
Le foreste mediterranee, dominate da vegetazione sclerofilla sempreverde, quella con foglie piccole e coriacee, sono da secoli abituate a convivere con l’aridità estiva. Ma negli ultimi anni, il clima si è fatto ancora più estremo. Si sono verificate, infatti, ondate di calore fuori scala e lunghi periodi di siccità stanno provocando sempre più frequentemente episodi di disseccamento e moria tra gli alberi.
Nel bacino del Mediterraneo, gli effetti più evidenti si osservano sia nelle aree costiere, dove dominano le latifoglie sempreverdi come il leccio, sia nelle zone montane, dove prevalgono le conifere tipiche dell’ambiente oro-mediterraneo. Queste piante, pur essendo adattate a sopportare stress idrici, non sono immuni al crescente impatto del cambiamento climatico.
Uno degli errori più diffusi è pensare che la sclerofillia sia un adattamento diretto alla siccità. Non è così. Le sclerofille possono soffrire gravemente in condizioni di bassa umidità atmosferica e alte temperature, che generano un’elevata differenza di pressione di vapore (VPD), causando la cosiddetta cavitazione xilematica: in pratica, le colonne d’acqua che scorrono nei vasi conduttori delle piante si spezzano a causa dell’alta tensione, interrompendo il trasporto dell’acqua dalle radici alle foglie.
Più è alto il VPD, più difficile è per la pianta recuperare da questi danni. E a lungo andare, le conseguenze si vedono: perdita della chioma, secchezza del fusto, e nei casi peggiori, morte dell’intero esemplare. Alcune specie, come le latifoglie sempreverdi mediterranee, sono capaci di rigenerarsi emettendo nuovi germogli dal tronco o dalla base. Questo permette, almeno in teoria, al bosco di sopravvivere e rigenerarsi dopo eventi estremi.
Ma questa resilienza ha un limite. Se gli episodi di siccità e calore si ripetono troppo spesso, le riserve energetiche delle piante – zuccheri solubili e amido – si esauriscono. E senza energia, anche le capacità di rigenerazione si spengono. È il segnale che l’equilibrio sta saltando.
Nel Mediterraneo, un ecosistema che da millenni convive con la scarsità d’acqua, il vero pericolo non è la siccità in sé, ma la sua intensità, durata e frequenza. Se un tempo questi eventi erano eccezionali, oggi rischiano di diventare la norma. E i boschi mediterranei, pur con tutta la loro storia di resistenza, potrebbero non essere più in grado di adattarsi.
Le foreste mediterranee sotto osservazione: cresce il disagio degli alberi, ma il monitoraggio resta limitato
Negli ultimi anni, le foreste mediterranee italiane stanno lanciando segnali di sofferenza sempre più evidenti. A preoccupare non sono soltanto gli episodi di disseccamento e deperimento, allo stesso tempo cresce anche la difficoltà nel valutare con precisione l’entità e la diffusione del fenomeno. Il quadro che emerge dalle ricerche più recenti parla chiaro: l’aumento di ondate di calore e lunghi periodi di siccità sta mettendo a dura prova la tenuta di questi ecosistemi.
Le condizioni climatiche estreme, tutt’altro che isolate, si stanno manifestando con una frequenza crescente, al punto da essere considerate tra le principali cause predisponenti del deperimento osservato in diverse regioni italiane. A peggiorare la situazione, si aggiungono minacce di origine biologica: agenti patogeni come i funghi del genere Phytophthora, insieme a funghi agenti di cancro del legno come Diplodia corticola e Biscogniauxia mediterranea, risultano spesso coinvolti nei processi di disseccamento e morte degli alberi.
In molti casi, il disseccamento della parte aerea si accompagna a infezioni dell’apparato radicale, spesso legate alla presenza di Phytophthora spp.. Non mancano segni di cancro sul fusto dovuti a Biscogniauxia mediterranea, con episodi di mortalità che coinvolgono sia alberi adulti che giovani. Tuttavia, non tutte le piante reagiscono allo stesso modo, ovvero in autunno, quelle meno compromesse mostrano segni di vitalità, riattivando gemme dormienti e producendo nuovi getti, a dimostrazione di una resilienza ancora presente, seppur messa a dura prova.
A livello nazionale, il monitoraggio delle condizioni delle foreste italiane, in particolare della defogliazione e della mortalità, è affidato al programma CON.ECO.FOR. (ICP Forests), coordinato dai Carabinieri Forestali. I dati raccolti indicano un trend preoccupante: a partire dal 2010, lo stato di salute dei boschi italiani mostra un progressivo deterioramento, in linea con quanto osservato anche in altri paesi europei.
Eppure, qualcosa non torna. Le formazioni di leccio, sughera e macchia mediterranea rappresentano circa il 10% delle superfici forestali italiane, ma risultano sottorappresentate nelle reti di monitoraggio, solo 11 delle 261 aree permanenti sono dedicate a questi ecosistemi. Una lacuna significativa, considerando che proprio qui si stanno manifestando i segnali più allarmanti.
Un’analisi dettagliata dei dati raccolti tra il 2001 e il 2024 su circa 250 piante di leccio rivela due tendenze distinte. Fino al 2016 si registra una riduzione della defogliazione; ma da quel momento in poi il trend si inverte bruscamente. I picchi coincidono puntualmente con le estati più calde e siccitose: 2017, 2022 e, più recentemente, il 2025. La mortalità vera e propria rimane contenuta, ma l’aumento delle piante con defogliazione superiore all’85% suggerisce che la linea tra sopravvivenza e morte è sempre più sottile.
In parte, questa apparente “resistenza” si spiega con la straordinaria capacità del leccio di rigenerarsi, emettendo nuovi germogli anche dopo gravi danni. Una strategia che può trarre in inganno: molte piante sembrano ancora vive, ma in realtà sono in bilico tra la sopravvivenza e il collasso fisiologico.
Il monitoraggio resta dunque uno strumento cruciale, ma servono più dati e un’attenzione maggiore alla vegetazione mediterranea, troppo spesso trascurata. In un contesto di crisi climatica sempre più accentuata, capire con precisione cosa sta accadendo nelle nostre foreste non è solo una questione scientifica, ma una necessità per orientare strategie di conservazione e gestione realmente efficaci.




