Se fossi brava e bella e se questa fosse una recensione canonica e seriosa, direi che i due testi di Andrea Accardi che si intitolano “Frattura composta di un luogo” e “Frattura composta di un nome”- (Giuliano Ladolfi editore) pubblicati qualche mese fa a poca distanza l’uno dall’altro – siano strutturati secondo il canone della frammentarietà.
A ribadirne la sostanza, oltre alla forma, vi è l’ossimoro, la figura retorica usata nel linguaggio parlato quotidianamente e che accosta termini tra di loro opposti. L’ossimoro già ne compone i titoli. Direi inoltre che l’impianto frammentario delle due opere abbia ascendenze letterarie ben precise, di cui il primo esempio da citare è il ‘poème en prose’, lo “Spleen di Parigi” di Baudelaire e le sue propagazioni nel primo Novecento, attraverso l’utilizzo del prosimetro (la prosa alternata ai versi), dei poeti vociani, legati appunto al periodico “La Voce”. Mi riferisco soprattutto a Piero Jahier. E, come per i poeti vociani (tra cui Sbarbaro, Rebora e Campana) che traevano ispirazione dalle suggestioni della città, nelle opere di Accardi il racconto ruota intorno a un’apparente anonima, ma nei fatti metafisica, città. Altra peculiarità è l’esercizio di stile: il secondo testo, “Frattura composta di un nome” è in qualche modo la riscrittura del primo.
Ma poiché non sono né brava né bella, ma ‘sporca e monella’ mi addentrerò nell’aspetto impertinente delle due opere, da leggere certamente in questi giorni di quarantena perché la loro ambientazione, sebbene collocata in un luogo abitato, popolato e vissuto, sembra precorrere la dimensione del confinamento in cui ci troviamo adesso e che mai prima d’ora c’era appartenuta. Metti una cittadina che non possiamo configurare precisamente in un definito spazio geografico. È una città universitaria, popolata ovviamente da studenti dove tutto ciò che è stato costruito risulta artificiale. Quello che avviene a ciascun personaggio è sezionato in capitoli così brevi e istantanei da farci percepire la frattura anche nei rapporti umani, la dimensione solitaria di individui che risultano monadi, nonostante le feste, gli incontri e la vita comunitaria. Ogni breve capitolo appartiene a una sezione. La frattura consiste appunto nella divisione di entrambi i testi in tre parti denominate: il luogo, i nomi, le voci. In ogni narrazione solitamente l’ambiente, i personaggi e i loro dialoghi o monologhi sono tutt’uno, qui invece si presentano scardinati, spezzati in queste tre macro-sezioni e ricomposti ordinatamente dall’autore che stabilisce un patto tacito con il lettore, il quale poi riconoscerà, collocherà e ordinerà, come in un puzzle, i nomi agli ambienti e poi le voci ai nomi e agli ambienti.
C’è dunque questa cittadina come sospesa, apparentemente tranquilla che però nasconde misteri, incubi, inquietudini e bizzarrie dei suoi personaggi. Avvengono infatti dei ‘fattacci’ come la sparizione di una ragazza, il cui viso campeggia sui manifesti e fa raggelare chi l’aveva conosciuta. Le citazioni, neanche troppo velate, si rifanno alla celebre serie televisiva degli anni ’90, “I segreti di Twin Peaks” del regista David Lynch. Anche lì c’era una cittadina apparentemente tranquilla, anche lì personaggi bizzarri, anche lì l’altra faccia inquietante della realtà (“I gufi non sono quello che sembrano”) e l’uccisione di una ragazza. A poco a poco ciò che si svela è proprio l’irrealtà di questo luogo, la sua consistenza spettrale: “Il lago è finto come tutto il resto. La finzione assoluta equivale al vero”. Oppure: “Ma quando guardi le parole scritte intorno, l’insegna di un negozio o il nome di una strada ti sembra di vedere il retro delle cose”. L’unico elemento di speranza, sebbene anch’esso perturbante, è la comparsa di uno strano uccello: “…un rapace azzurro e silenzioso ha mostrato contrasto con il mondo di sotto. Diventa se stesso nel momento in cui scompare”. Tale creatura fantastica, che appunto non appartiene al ‘mondo di sotto’, ribadisce la dimensione allucinata di questo spazio inventato, ma all’asfissia di una teologia della negazione, risponde con l’aspetto salvifico e simbolico dell’onirico, dell’immaginazione. Non a caso, Accardi è studioso di Maeterlinck che scrisse appunto l’opera teatrale “L’uccellino azzurro”, una fiaba dove questo animale immaginario simboleggiava la felicità, ovvero la capacità di vedere le cose sotto un altro aspetto.
Ma cosa rende ancora di più questi due testi aderenti alla logica della nostra rubrica, ovvero alla filosofia di Antani? Oltre alla loro struttura difforme rispetto ai canoni consueti della narrazione, sicuramente lo spirito pungente e caustico, i nani che occhieggiano mostrando il culo, le battute di un personaggio che vorrebbe sentirsi come quando ha scoperto che il chinotto è un frutto e tutta una successione di siparietti dall’intrigante sapore paradossale. La boutade, insomma, in una resa pluristilistica: “Provi però un dolore indefinito, che arriva da dentro, che non c’entra proprio niente”. E, nella conclusione di quasi ogni breve capitolo, con delle freddure: “Come in un quadro di Brueghel, si prepara forse un massacro, una festa. Oppure niente”. O per esempio: “Capisci di stare invecchiando quando i calciatori cominciano a essere più giovani di te”. E ancora: “Per sembrare profondo con le ragazze dice che l’infezione permanente è comunque la vita”.
La battuta sagace e improvvisa si aggancia direttamente alle nostre bizzarrie, al nostro vissuto che ci appare improvvisamente artificiale, come in questi giorni angoscianti, in cui viviamo ovattati nelle nostre case: “Tutto sembra la prova di qualcosa di più grande che avverrà fuori, all’esterno”.
Forse Accardi vuole dirci che se provassimo a scardinare la nostra realtà in luoghi, voci e nomi e se poi la ricomponessimo, davvero potremmo cominciare a intravedere il retro delle cose. Perché, attraverso quest’artificio, la finzione assoluta equivarrebbe al vero.