Luca Guardabascio, regista, sceneggiatore e scrittore campano, racconta il suo cinema in un’intervista.
Ciao Luca, benvenuto e grazie per la tua disponibilità. Se volessi presentarti quale artista della settima arte ai nostri lettori, cosa diresti di te?
“Un regista, un autore di cinema, proprio come un antropologo, dovrebbe camminare per il Mondo, avere grandi orecchie e occhi di meraviglia, prima di raccontare la storia giusta. Da che ho memoria, mi interesso all’uomo e alla sua storia. La Storia, spesso, viene fatta ad uso e consumo dei potenti, le altre storie, invece, quelle di tutti noi, vengono tralasciate, per questo l’immagine, oggi, è il mezzo più forte che una società possa avere, per raccontare quello che viene taciuto. Sono sempre stato dell’idea che bisogna trovare nelle piccole storie un’espressione d’infinito, solo in questo modo il pubblico potrà riconoscerle. Mi approccio al cinema e alle storie che racconto con piglio naturalista, in più sono da sempre un cinefilo, divorare cinema aiuta a raccontare altro cinema”.
Come definiresti il tuo stile artistico? C’è qualche regista al quale ti ispiri?
“Ho iniziato con un genere Il Marron, coniato ai tempi del mio primo film Inseguito, 2002 (con Fabio Testi, Lidia Vitale, Nanni Candelari, Daniele Natali) in cui fondevo il giallo all’italiana e il noir francese. Nel cinema Marron c’è grande componente onirica (David Lynch), psicologica (Hitchcock), e alla base molte menzogne (Kurosawa e Tarantino). Oggi, dopo diversi esperimenti, faccio un cinema più sociale e realista come i miei maestri Florestano Vancini e Giuseppe De Santis mi hanno insegnato. Lavorare per la gente, per lo spettatore comporta grandi responsabilità; bisogna intrattenere ma allo stesso tempo educare. Negli ultimi anni mi sono dedicato a diversi documentari e a film come “Credo in un solo Padre” che hanno una forte componente sociale. Credo di poter definire questo cinema “naturalista” esaltando la letteratura di Émile Zola e attualizzando molte tematiche al 21esimo secolo, epoca di transizione, di crisi e per questo molto sofferta. Ho dei miti, dei punti di riferimento, ma le lezioni dei grandi maestri le porto sempre con me. Sono cresciuto con gli autori della Nuova Hollywood, di contro ho amato gli attori italiani della commedia del boom. La lista è troppo lunga ma i miei preferiti restano Totò e Nino Manfredi. Il Nino Manfredi regista è qualcosa a cui aspirare, raccontare una storia come Per grazia ricevuta, è un sogno che nutro sin da bambino. Con questa prima formazione “popolare” sono cresciuto guardando tutto quello che arrivava ad Eboli e a Campagna le mia città. Divoravo le notti dei Bellissimi di rete 4 e quelle di Fuori Orario su Rai 3 registrandole su cassette da 240 minuti. Una volta raggiunta l’età della “finzione” (o ragione) sono fuggito a Roma per studiare cinema e ho viaggiato molto per approfondire quelli che considero i miei punti di riferimento: Werner Herzog, John Cassavetes, Igmar Bergman, Theo Anghelopulos, Andrei Tarkovsky, Oliver Stone, gli indipendenti americani da Morris Engel a Jim Jarmush“.
Chi sono secondo te i più bravi registi nel panorama internazionale? E con chi di loro vorresti lavorare e perché?
“Michael Haneke è sicuramente un genio perché ha creato una piccola rivoluzione destrutturando la macchina cinema. È stata una rivoluzione come quelle fatte da Orson Welles, Godard, Sergio Leone, Theo Anghelopulos, Kusturica, Abbas Kiarostami, Paul Shrader. Per rispondere alla seconda domanda, poter osservare Scorsese, Coppola, De Palma, Tarantino al lavoro sarebbe una benedizione. Vorrei semplicemente vederli girare e magari starmene in un angolo; la cosa più divertente però sarebbe avere una piccola parte in un loro film, essere diretto da uno di questi grandi autori. Spielberg, infine, è re Mida, mi piacerebbe seguirlo nel suo processo creativo, nel suo rapporto con le altre professionalità. Non amo tutti i lavori di Spielberg ma possiamo restare a parlare per giorni del padre di Et e de Lo squalo, finché esisterà il Cinema, Spielberg ci sopravvivrà e sarà amato da tutte le fasce di età, proprio come Walt Disney“.
Se potessi scegliere due attori e due attrici italiani contemporanei per un tuo film, chi sceglieresti e perché?
“Il cinema è un lavoro complicato, delicato, fottutamente unico. Ogni film è una storia d’amore e spesso ti innamori di alcuni attori e li fai crescere con te, fai un percorso di vita importante con loro. Del cinema amo soprattutto i film in cui regista e attore trovano la quadratura del linguaggio filmico e narrativo. Il regista e il suo doppio sono la base di film straordinari: Truffaut–Leaud, Kurosawa-Mifune, Scorsese-De Niro, Herzog-Kinski, Fellini-Mastroianni, Petri-Volontè, Wetrmuller-Giannini, Sorrentino-Servillo per citare i più scontati. Non temo gli attori con un brutto carattere anzi, mi piace riuscire a scoprire il loro mondo, il loro approccio ad un copione. Sul set dell’ultimo film, “Credo in un solo Padre”, sono stato letteralmente folgorato da quel grande attore che è Massimo Bonetti. Partivamo da una signora sceneggiatura che ho scritto con l’autore Michele Ferruccio Tuozzo, ma il processo creativo e identificativo, il transfert regista-attore-personaggio è stato così autentico che con Massimo Bonetti ci siamo ripromessi di realizzare un altro film insieme. Quindi il primo nome è il suo. Mi piacerebbe lavorare con Valerio Mastandrea in una commedia all’italiana amara di quelle scritte da Sonego, Scola, Brusati, Maccari per intenderci. Se dovesse avverarsi il miracolo di realizzare una commedia di quel genere, e scritta “a mestiere” (come diciamo in Campania), credo che Mastandrea possa essere il mio uomo perché porta nello sguardo la malinconia del mondo che mi piacerebbe raccontare e lavora per sottrazioni, proprio come Nino Manfredi. Abbiamo grandi attrici, enormi, fenomenali ma credo che i nomi che girano siano sempre gli stessi. Sull’ultimo film avevo un gruppo di attrici straordinarie come Anna Marcello, Donatella Pompadour, Lucia Bendia, Anna Rita Del Piano, Maddalena Ischiale, Chiara Primavesi, Silvia Bertocchi, Cloris Brosca, per citarne solo alcune, credo che il cinema italiano debba sfruttare le diverse potenzialità che il mercato offre e aprirsi alle sorprese. Però, per tornare a questo gioco, devo rispondere che per il prossimo film, quello con Bonetti e Mastandrea, mi piacerebbe avere Jasmine Trinca, Stefania Sandrelli, Sandra Milo (La visita di Pietrangeli è uno dei miei film preferiti). Metterei come bonus Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore, Ennio Fantastichini, Diego Abbatantuono e Teo Teocoli. Perché? Perché pensavo a loro quando ho scritto la sceneggiatura. Il mio gruppo di attori da Giordano Petri a Claudio Madia, da Fabio Mazzari a Ludovica Ferraro, da Alessandro Paci a Graziano Salvadori al mito Flavio Bucci, ovviamente, non li tradirò mai. Siamo un bella famiglia“.
Quanto è importante nel cinema lo studio e la disciplina? Perché secondo te, un giovane che volesse lavorare nel mondo del cinema deve studiare, perfezionarsi e fare esperienza?
“Da diversi anni insegno cinema e lavoro anche in America dove ho realizzato diverse opere di finzione e non. Il cinema negli Stati Uniti è un mestiere, le regole sono ben precise e tu, regista, sei un numero, una pedina, un ingranaggio di una catena interminabile. Oltre oceano tutto funziona alla perfezione perché hai avuto tempo per prepararti, soldi per discuterne e non fretta di concludere e improvvisare. In Italia fare cinema è un’ambizione che si tramuta spesso in tentativi perché non sempre la macchina riesce a girare nel modo in cui vorresti e questo è un peccato perché non leggo, se non in rarissimi autori, una vera poetica. Una poetica che non è generata da una situazione creativa (scriviamo spesso i migliori copioni al Mondo) ma dalla carenza di una messa in scena produttiva e dalle regole distributive che hanno penalizzato per anni film che invece avrebbero avuto incassi, durata e commerciabilità internazionale. Il 60 % dei film italiani seguono uno schema stantio, non vendibile all’estero, l’altro 40% sono capolavori, di questo 40% almeno la metà rappresenta un miracolo produttivo. Io credo nella politica degli autori, credo nella Nouvelle Vague e solo con lo studio e con la conoscenza del cinema, di tutto il cinema, si possono realizzare i miracoli. Il mio film “Andrea Doria: I passeggeri sono in salvo?”, prodotto da Pierette Domenica Simpson, è stato quel tipo di miracolo, proiettato in 42 paesi, e che ora sta facendo il giro dei musei come l’Heinz History Center gemellato con lo Smithsonian. Quel film è un classico da museo, è stato visto da quasi due milioni di persone e lo abbiamo distribuito da soli. Grazie a questo film, in alcuni paesi, ho potuto proiettare anche il mio pacchetto di film e documentari prodotti in precedenza, e addirittura nel 2019 Stati Uniti e Brasile mi hanno chiesto una retrospettiva. Bisogna sudare però, essere sempre sul pezzo, con la valigia pronta, trovare piccoli sponsor, non fermarsi davanti a nessun ostacolo. Bisogna guardare di tutto, persino la televisione, da che faccio cinema in maniera più professionale, leggo molti più libri e ascolto di più la radio perché non bisogna mai smettere di immaginare, far viaggiare la fantasia, espandere il proprio linguaggio, ampliare la conoscenza. Solo l’immaginazione può creare grandi immagini e tradurre un piccolo pensiero in un film. Da che lavoro anche in USA, ho capito che chi fa cinema, chi riesce a realizzare sogni è perché ha tanto studiato, ha sacrificato la propria vita per quello scopo. So che è difficile ma quando si sa cosa si vuole, si riesce ad ottenere dei risultati. Per usare una metafora, se hai la testa dura e la batti contro il muro, prima o poi lo sfondi“.
Chi sono stati i tuoi maestri?
“Oltre ai miei nonni ed ai miei genitori che mi hanno educato ad amare ogni forma d’arte, i miei primi ricordi sono sulle ginocchia di Nino Taranto che mi raccontava di come, per interpretare un ubriaco, ci volesse grande tecnica; avevo circa 5 anni e ripenso a quell’incontro come a qualcosa di seminale. Un ubriaco? Una cosa semplicissima per un clown ma non per un attore di cinema o di teatro che deve trasferire il sentimento che una sceneggiatura (drammaturgia) e una regia richiedono. Quella è stata la mia prima lezione di spettacolo. Ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con grandi maestri, chi mi hanno segnato anche umanamente e, tra tutti vorrei citare Giuseppe De Santis, Florestano Vancini, Nino Manfredi, Antonio Capuano, il compositore Mike Stoller, il regista Allen Baron, lo scrittore William Hjortsberg e il produttore David Chase; ognuno di loro mi ha istillato qualcosa di fondamentale e unico per la mia formazione“.
Alcuni programmi televisivi italiani fanno passare l’idea che per diventare artisti o attori, basta solo avere fortuna ed essere lanciati dalla “notorietà social o televisiva”. Tu che ne pensi di questo fenomeno?
“Alla base c’è un problema di educazione e di rispetto per una professione che in molti non considerano tale. Si fa credere da troppi anni che l’artista sia un gigolò ad ore, un pranzo fast food. L’artista non fa i soldi facili, l’artista è, cito il dizionario Sabatini: “chi esegue il proprio lavoro con una perizia tale da raggiungere risultati unici.” Di talento in giro e in tv ce n’è tanto ma di veri artisti ne vedo pochi. Quando fai un provino ad un attore la differenza la noti subito, a meno che tu non stia cercando una determinata faccia. Non sono contro i fenomeni perché è la storia del Mondo quella di essere sempre contro qualcosa, ma sono certo che la qualità da social o, il carattere di chi non si è sudato la pagnotta, sia nettamente inferiore. Purtroppo, il mood social è in crescita ma poi, per tornare ai miracoli, siamo tutti felici quando Marcello Fonte vince Cannes e per questo viva il Cinema“.
Quanto è importante la sceneggiatura in una produzione cinematografica? Chi sono, dal tuo punto di vista, gli sceneggiatori contemporanei più bravi?
“Senza una buona sceneggiatura non può esserci un buon film. Un’ottima sceneggiatura racchiude tutte le possibilità per rendere ottimo un film. Personalmente in sceneggiatura inserisco sempre la mia idea di linguaggio senza essere troppo invasivo per poter condividere sin da subito con attori e tecnici l’atmosfera (anche visiva) di un’opera e poter lavorare meglio sul set. Devo dire che Niccolò Ammaniti sa fare bene il suo lavoro, le storie di Giuseppe Tornatore però hanno sempre una marcia in più, Paolo Sorrentino è un grande autore, un grande regista però penso che abbia scritto le sue sceneggiature migliori da L’uomo in più a L’Amico di famiglia, poi, inevitabilmente, ti lasci rapire da qualcosa di troppo magico che si chiama autorialità registica e non ritrovi più la storia perfetta in sceneggiatura. Ivan Cotroneo è sicuramente uno dei migliori sceneggiatori italiani, al momento“.
Come è nata la tua passione per la settima arte?
“Ho iniziato come attore e scrittore, ho avuto la fortuna di veder pubblicato il mio primo libro di favole a 7 anni, a 13 anni mi è stata regalata la mia prima telecamera e dal 1989 al 1995 ho realizzato circa 150 film in Home video con parenti e amici, spesso parodie alla Franco e Ciccio che venivano piratate e giravano con il passaparola raggiungendo migliaia di persone. In quegli anni vivevo tra l’edicola sotto casa e la videoteca in piazza. Tra i 14 e i 19 anni sono arrivato a girare un paio di Home movies al mese e a vedere una decina di film al giorno, appuntavo tutto su un quaderno. Se leggo del 27 luglio 1991, ad esempio, passo da Il pirato sono io con Erminio Macario, a Grazie Mr. Moto con Peter Lorre, da Re per una notte di Scorsese a Due figli di … con Steve Martin e Michael Caine, per concludere con Manhattan Baby di Lucio Fulci e il documentario Lettere dal Vietnam. Per non contare i telefilm che andavano in onda la notte, che palestra indispensabile sono stati! Ai confini della Realtà, l’Ora di Hitchcok e Hitchcok presenta, gioielli che ogni cineasta dovrebbe sempre avere oggi sul … lo smartphone. È un po’ la storia di Quentin Tarantino, vivere per amore del cinema, sempre. Fare esperienza all’estero, avere una visione internazionale, può aiutare molto a fare film in Italia“.
Perché secondo te oggi la settima arte è così importante e va promossa e seguita da tutti?
“Il cinema racchiude tutte le arti appunto e i capolavori dovrebbero essere studiati come la Divina Commedia. Se prendiamo un film di Igmar Bergman, di Fellini, di Bresson, di Kurosawa, di Sergio Leone, di Orson Welles, di Chaplin, Kubrick, di Michelangelo Antonioni, di Luchino Visconti, che sono opere d’arte riconosciute, abbiamo gioco facile. In alcuni film non esistono solo il senso letterale, allegorico, morale e anagogico (presente in molti film da Aguirre furore di Dio a Guerre Stellari), il cinema ha un senso interpretativo, poetico, linguistico, musicale, filosofico, attuale, storico, ambientale, sentimentale, identificativo ecc… perché il cinema è Arte e come tale dovrebbe essere studiata e seguita. Solo il cinema e la musica, solo l’immagine in movimento e i suoni possono riavvicinare lo studente alle altre materie. E tutto è stato e sarà raccontato dal cinema. Sono molto felice del lavoro culturale che fa oggi la televisione e sono convinto che ci sono opere televisive che possono essere sezionate, analizzate e studiate in classe. Bisogna però trovare professori che conoscano la materia Cinema ed evitare quelli che credono sia solo intrattenimento. Quattro ore di Cinema a settimana: teoria più pratica, renderebbe questo paese più propenso a comprendere la cultura dalla preistoria ai giorni nostri. Il cinema non può essere relegato ad ore extracurriculari perché i film avvicinano gli studenti alla letteratura, alla filosofia, alla storia, all’epica, alla geografia, alla matematica“.
Qual è il ruolo della critica cinematografica oggi? Quale dovrebbe essere a tuo parere il suo vero compito per promuovere la cultura della settima arte?
“Non dare voti, non fare sintesi ma rivedere un film che è piaciuto o un altro che è piaciuto meno, prima di dare stelline. Non tutti hanno la “dirompente” padronanza di sintesi del Rivette critico, ma quella era un’altra epoca. La critica oggi non ha tempo di andare al cinema e, ci sono alcuni giornalisti che saltano da un multisala all’altro prendendo informazioni e pareri generici. La colpa non è della critica ma della soglia di attenzione di editori e di alcuni lettori. Il critico cinematografico, quello vero, dovrebbe sapere che non tutti leggeranno la sua critica, ma chi scrive una critica dovrebbe anche sapere che quelle critiche sintetizzate in un tweet non rendono giustizia ad un film (bello o brutto), né al nome del critico. Io suggerirei di rimandare il lettore al web dove potrebbe esserci qualcosa di più approfondito. Alla base c’è però un fenomeno distributivo, i critici bontà loro, sognano tutti di poter scrivere come i Chaiers du Cinema e lo dico perché anche io ho scritto di cinema, ma l’imperativo era sempre “Taglia! Taglia! Taglia!” Quindi i critici li amo e li seguo con attenzione, però bisognerebbe trovare una formula per parlare di film belli e film brutti in maniera sintetica ma precisa. Mi piace molto seguire le critiche dei film presentati ai festival perché non hanno ancora delle dinamiche distributive e sento la critica più libera di poter osare. La distribuzione, invece, dovrebbe comprendere maggiormente le potenzialità dei film, anche quelli che non hanno grandi nomi in cartellone. Solo con una distribuzione più attenta ed un mercato più libero, si potrà promuovere la settima arte“.
Seconde te Luca, è importante partecipare a Festival del Cinema? Oggi in Italia ce ne sono tantissimi, non tutti di qualità, alcuni organizzati molto bene. Per chi fa cinema o scrive di cinema, a cosa serve partecipare ad un Festival del Cinema?
“Come ho detto per la critica, spesso grazie agli umori di un pubblico presente in un grande festival, puoi capire realmente il valore del tuo lavoro. Partecipare ad un buon festival è una gran bella sfida, secondo me irrinunciabile per un autore che vuole comprendere davvero di che pasta sia fatta il proprio cinema“.
Ci parli dei tuoi ultimi lavori e dei lavori in corso di realizzazione?
“Da qualche giorno abbiamo concluso le riprese di “Credo in un solo Padre” un film che viene da due anni di preparazione e che ho scritto con Michele Ferruccio Tuozzo. Il film affronta il tema della violenza domestica, della violenza contro le donne, dell’omertà di paesi in cui tutti sanno e nessuno parla. Un film che parla del male del nostro tempo: l’assenza di empatia. Un film che è una pugnalata al cuore, una storia che ti mangia l’anima perché’ narra di una doppia violenza perpetrata da un nonno nei confronti della nuora e della nipotina di soli 5 anni. Un film crudo, realista, necessario, dove anche i ruoli da commedia hanno quella struttura amara che amo tanto. Un film girato tra la provincia di Salerno e la provincia di Arezzo. La fortuna vera è stata trovare produttori e associati che hanno creduto in un progetto del genere tra tutti Stefano Misiani dell’Around Culture, Gianni Pagliazzi, Domenico Elia, Gigliola Pessolano, Pietro Deo, Franco Della Posta. Insieme, e grazie al lavoro di donne vittime di abusi e violenza, presenti anche sul set, di un pool di psicologhe e di tanti amici, abbiamo fatto un grandissimo lavoro. Non vedo l’ora di montare il film e spero di poter partecipare ad un festival importantissimo prima della distribuzione nelle sale. Sto lavorando anche ad un documentario antropologico che deve molto a Ernesto De Martino e Luigi Di Gianni dal titolo “Scorzamauriello: tra mito e tradizione” patrocinato dal comune di Eboli e prodotto da Le tavole del Borgo con protagonista Claudio Madia, è la storia del Munaciello “folletto” buono o dispettoso, una storia bellissima. Con il produttore Gianni Pagliazzi stiamo anche realizzando un piccolo documentario sportivo sulla favola dell’Arezzo calcio che, in bancarotta e con 18 punti di penalizzazione, si è salvato grazia ad un movimento popolare, ad una città bellissima, alla voglia dei calciatori e del mister di restare nella storia, alla scommessa del patron Giorgio La Cava. Il titolo sarà “Arezzo. Il calcio che sognavo da bambino” che è una frase del bomber Davide Moscardelli pronunciata il giorno dopo la salvezza. Infine, il Mibact ci ha anche consentito di sviluppare la sceneggiatura di un film sull’Andrea Doria: La verità Nascosta che dovrebbe avere un cast internazionale. È un film molto costoso ma credo riusciremo a trovare i fondi in un paio d’anni. Nella primavera del 2019 in America il regista Michael Di Lauro girerà un film scritto da me “A smell of Garlic” una storia toccante di demenza senile ambientato in una little Italy sospesa da realtà e immaginazione, un film complesso che parte dalla Bari della Seconda guerra mondiale e arriva alla Pittsburgh del 2007. Il protagonista dovrebbe essere Chazz Palminteri. Nel 2019 uscirà il mio prossimo libro ambientato In Laos. Ah… mi piacerebbe realizzare una Commedia Amara dal titolo “Il passeggero” (n.b. quello con Valerio Mastandrea) con un buon budget oppure continuare sulla direzione sociale con un film indipendente dal titolo “Urlamò” che potrebbe essere il secondo film della trilogia del Padre iniziata con “Credo in un solo Padre”. Spero però che il film in uscita tra qualche mese possa educare e cambiare qualcosa contro la violenza domestica, solo così avremo raggiunto un grande traguardo“.
Immagina una convention all’americana, Luca, tenuta in un teatro italiano, con qualche migliaio di adolescenti appassionati di teatro e cinema. Sei invitato ad aprire il simposio con una tua introduzione di quindici minuti. Cosa diresti a tutti quei ragazzi per appassionarli al mondo della recitazione, del teatro e della settima arte? Quali secondo te le tre cose più importanti da raccontare loro sul cinema?
“Ho fatto delle convention in America mentre la gente mangiava, e ho visto conferenzieri che non riuscivano a distogliere i commensali dal loro piatto di chicken parmigiana. Beh, è stata una bella sfida e sai come li ho conquistati? Raccontando di me, della mia infanzia, delle mie passioni, del fatto che il mio lavoro fosse il sogno che nutrivo da bambino quando per non pagare il biglietto mi intrufolavo durante l’intervallo e partivo vedendo prima il secondo tempo di un film, poi il cartone animato, poi il documentario o la comica di Stanlio e Ollio o Harold Lloyd e infine il primo e il secondo tempo del film. Del Marchese del Grillo ricordo di aver visto per 3 volte il secondo tempo perché la gente sporcava così tanto la sala in quanto presa dagli scherzi di Sordi che a fine film bisognava ripulirla e io venivo messo puntualmente alla porta. Nel vedere quei secondi tempo ridevo ma non capivo alcune cose, tipo perché a quell’incredibile Don Bastiano (Flavio Bucci) tagliavano la testa. E poi per anni ho cercato di capirne le premesse finché nel 1985 non vedo il film in televisione. In tv noto anche il fatto che Don Bastiano sia stato l’unico a tener “testa” al Marchese e mi dico, un giorno lavorerò con Don Bastiano. Dopo circa 40 anni arrivo a fare dei film e sul set mi ritrovo l’incredibile Don Bastiano-Flavio Bucci e comprendo che Ogni cosa è illuminata. Prossimamente spero di ritrovare su un mio set Frank Serpico (Al Pacino) , Travis Bickle (Robert De Niro), Tony Manero (John Travolta) o Julian Kay (Richard Gere)“.
Dove potranno seguirti i tuo ammiratori e i tuoi fan?
“Non credo di avere ammiratori o fan, soltanto tanti amici a cui voler lasciare un metodo, una poetica sociale e antropologica che passa e cresce di film in film. Il web, se usato con raziocinio e curiosità, è uno strumento fondamentale, quindi dico ai miei amici di digitare semplicemente il mio nome su internet, qualcosa di nuovo apparirà perché io non riesco a stare fermo così come non riesco ad avere quelle pagine in cui obblighi la gente a cliccare “mi piace””.
Luca Guardabascio
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Andrea Giostra
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