E se nei mesi precedenti la parola “fallimento” non è stata condivisa o accolta con favore da alcuni, oggi è quella che risuona con più prepotenza.
Non lascia scampo la cocente e meritata sconfitta rimediata dal Palermo contro la Juve Stabia, nel primo turno playoff. Il match del “Menti” può essere riassunto come il perfetto quadro della stagione opaca appena archiviata (CLICCA QUI). Una ferita che brucia e che scotterà ancora per molto. Un campionato in cui i siciliani non sono mai riusciti ad andare oltre il sesto posto in classifica, mai in corsa per la promozione diretta e soprattutto mai convincenti agli occhi dei propri tifosi, al punto da spingere gli ultras a scrivere il tanto discusso comunicato post Carrarese e disertare la trasferta in Campania, la più importante dell’anno.
Non c’è due senza tre. Oggi si può così parlare dell’ennesima occasione sprecata e della difficoltà nel saper analizzare gli errori commessi nel passato e farne tesoro. Dalla gestione della panchina a quella dell’area tecnica, con il passaggio di consegne da Rinaudo a De Sanctis, tessitori, negli anni, di una rosa incompleta in reparti nevralgici e dagli ingaggi onerosi, incapaci di mettere in piedi un gruppo squadra compatto e competitivo.
Carattere, identità e fame sono i tre elementi fondamentali che mai sono stati presenti all’interno dell’intero spogliatoio. La caccia al capro espiatorio è già partita settimane fa: prima Dionisi, poi, a stretto giro di posta, singoli e precisi giocatori (Le Douaron, Nikolaou, Diakité e Vasic), infine l’ad Giovanni Gardini. E se parlare di singoli non ha più senso, si va dunque oltre la superficie, arrivando fino alle radici di questo fallimento sportivo. Il tecnico toscano, che ha ereditato da Eugenio Corini il testimone per il ruolo del parafulmine ideale (CLICCA QUI), e la sua squadra sono solo la punta di un iceberg che lentamente si è sciolto. Qualcosa è stato sbagliato fin dal principio. Le potenzialità di una società economicamente prosperosa e capace di “agguantare” club in ogni parte del mondo, come quelle del City Group, non sono riuscite ad esprimersi all’interno del campo.
I dati della stagione appena conclusa, e più volte snocciolati (dal mancato filotto delle tre vittorie consecutive, alle 15 sconfitte, con quella di ieri sera, fino all’assenza di un bomber in doppia cifra) parlano da sé. I riflettori, però, vanno certamente posti su quelle scelte drastiche rimandate e non concretizzare, quel lasciar scorrere, quasi nell’indifferenza, che hanno inevitabilmente condotto alla disfatta del Menti. Le crisi post Cittadella, alla quale seguì la chiusura del 2024, ma anche della breve, seppur intensa, incisiva e compromettente, esperienza dell’ex ds De Sanctis, e quella seguita dal ribaltone subito al Barbera contro la Cremonese, con la delegittimazione di Dionisi, non sono casi sporadici, ma solo i più lampanti.
Le parole del consigliere d’amministrazione del Palermo e membro del board del City Football Group Alberto Galassi, alla vigilia del match contro le vespe, strabordanti di ottimismo e di positività, oggi non sono di pari passo con la realtà e il giorno dopo la tempesta spianano la strada verso un importante quesito in casa rosanero: cosa vuole fare il Palermo da grande? Come si intende gestire l’imminente futuro?
Forse, ancor prima che sul mercato, urgerebbe ripartire da una riflessione più ampia direttamente dal vertice. Una società più vicina alla squadra, ad oggi fin troppo estraniata “nell’isola felice” di Torretta, e alla piazza palermitana dovrebbe rappresentare un primo passo e una prima ammissione di colpe.
A insegnarlo non è più solo il “caso Palermo”. La realtà di Roma, Milan e Juventus non sono poi così diverse o distanti. Un calcio moderno, una nuova filosofia, che deve ancora affinarsi, trovare il giusto equilibrio e soprattutto rimettere al centro del progetto il campo e il gioco. Le priorità dei tifosi e dei nuovi assetti societari non sono più gli stessi. Chi dovrà adeguarsi e cedere per primo?