Le tradizioni non si dimenticano. Casomai, si evolvono e si interpretano. Può piacere oppure no, però l’unico modo per farle sopravvivere è permettere loro di fondersi con usi e costumi di altre civiltà. E pazienza se nel percorso si incrociano riti che poco hanno a che fare con la cultura d’origine. I punti di contatto, prima o poi, vengono allo scoperto. E possono creare qualcosa di unico.
Pupi, martorana e regali dai “morti”: la festa palermitana
È il caso della commemorazione dei defunti. Una tradizione tutta palermitana, che nel racconto dello storico e scrittore Elio Sanfilippo è suddivisa in due parti. “La prima – dice – ha origine nella cultura araba e riguarda il modo in cui gli adulti trascorrevano la giornata del 2 novembre. Era l’omaggio alla propria famiglia, agli avi. Un’intera giornata da passare al cimitero fino all’imbrunire, portando sedie e imbandendo tavolate intere con cibi e bevande che poi venivano anche lasciati ai morti. L’indomani si scopriva sempre che tutto era stato consumato, segno che i defunti avevano lasciato le proprie tombe e avevano festeggiato, brindando ai vivi”.
Un po’ macabra come scena, ma mai quanto la minaccia dei morti che “grattavano i piedi” ai bambini monelli nel sonno. “Era un inno alla vita anche questo. Il messaggio che passava era: non abbiate paura della morte. Per esorcizzarla – prosegue Sanfilippo – in giro per casa venivano lasciati cestini pieni di frutta di stagione. La melagrana, che nella tradizione dell’Antica Grecia era il cibo dell’Ade, non poteva mancare”.
Per i più piccoli, tutto era una festa. A cominciare dalla mattina del 2 novembre, quando, dopo essere “sopravvissuti” alla notte, si capiva di essere finiti nella “lista dei buoni”. “Nei ricordi d’infanzia – racconta Sanfilippo – il sentimento più forte di quella giornata era legato alla speranza di trovare i doni che avevano portato i defunti. Allora, appena svegli, si correva per tutta casa alla ricerca di piccole pistole, fucili, archi e frecce, oppure di bambole e altri utensili da cucina. Poi, era d’obbligo la visita al cimitero, per ringraziare i nonni o i bisnonni che di notte avevano portato questi regali”.
Per le strade di città e provincia risuonava una filastrocca che iniziava più o meno così:
“Il 2 novembre in Sicilia era la festa religiosa più importante, tra frutta martorana, pupi di zucchero o, meglio, ‘pupaccena’ e regali vari. Babbo Natale e il consumismo sono arrivati decenni dopo, prendendo il sopravvento”, conclude Sanfilippo.
Halloween: la festa pagana che ha scatenato le polemiche
Dopo il Natale, direttamente dagli Stati uniti è arrivato Halloween e con esso tutte le polemiche. Apriti cielo, una festa pagana, in cui i morti per una notte tornano sulla terra per spaventare i vivi. Un ruolo importante è giocato, anche qui, dai bambini, che vanno di casa in casa “conquistando” caramelle e dolciumi vari con la minaccia “dolcetto o scherzetto”.
“È molto emozionante decorare la casa con zucche da cui si ricavano spaventose lanterne e scheletri. Bambini e adulti, poi, si vestono a tema festeggiando per tutta la notte e raccontandosi storie di fantasmi”, descrive Maria Olivieri, un’italo-americana nata e cresciuta a Wilton, in Connecticut, da genitori palermitani. “Secondo alcune teorie – spiega – Halloween potrebbe derivare da una festività celtica legata al raccolto e alla rinascita. Celebrata in Irlanda e Scozia per secoli, fu poi portata in America. Nel tempo, ovviamente, si è evoluta, ma il cibo resta una parte imprescindibile”.
Dal Messico alla Sicilia: quante similitudini per il “día de los muertos”
Un’altra tradizione che sta pian piano prendendo piede anche in Sicilia da qualche anno a questa parte è quella di origine mesoamericana del “día de los muertos”, complice il successo di “Coco”, uno degli film d’animazione originali della Disney più riusciti degli ultimi anni. Da Metepec (Città del Messico) a Palermo sono 10.551 km, ma i punti di incontro tra le due culture sono molti.
“È una festa che dura due giorni, 1 e 2 novembre, ma i cui preparativi spesso impegnano le famiglie anche per settimane, per allestire gli altares o ofrendas creati dentro casa. Altari dai molti livelli, su cui si espongono fiori, principalmente i cempasúchitl o fiori dei morti, i piatti e le bevande preferite dai famigliari defunti che durante quelle due sere verranno a visitare i vivi. In alcuni paesini si festeggia dentro i cimiteri, andando direttamente alle tombe di famiglia”. È la testimonianza di Mario Estrada Sanchez, un ventottenne messicano che ha deciso di attraversare l’Oceano per trasferirsi in Sicilia.
“All’inizio, si credeva che i corpi dovessero essere accompagnati nel loro viaggio attraverso il micttlán ossia il luogo dei morti, una sorta di inframundo. Poi dopo la conquista questa tradizione si è mescolata a tradizioni cattoliche, portando al día de muertos che conosciamo oggi”, aggiunge.
Anche in questo caso, il cibo non può mancare, dal pan de muerto alle calaveritas, teschi di zucchero o cioccolato, che fanno il paio con i nostri mostaccioli, le cosiddette “ossa di morto”.
“Può sembrare una tradizione molto cupa ma la cosa principale è che si vive come una festa, tra disegni su carta colorata, il papel picado, musica, ricordi e banchetti. Si festeggiano la vita e la morte come parti fondamentali dell’esperienza umana. In generale, è una tradizione che tende a coinvolgere tutta la famiglia e serve per ricordare coloro che non ci sono più”, sottolinea Estrada Sanchez.
Anche il día de muertos rischia di perdere alcune sfumature originarie per acquistarne altre: “Oggi la festa è resa più spettacolare dal corteo con carri e maschere tipiche, che è d’invenzione abbastanza recente ed è stato esportato in molte città in tutto il mondo, compresa Milano – fa notare – La contaminazione estera, a cominciare da Halloween, non aiuta, visto che ai piccoli tende a interessare di più. Ma sono sicuro che la tradizione non sparirà. È troppo importante, rappresenta identità, cultura e soprattutto un modo di vivere e vedere il mondo. Un modo per combattere l’ansia moderna per la morte e togliere il velo di tristezza a una cosa che è più che naturale”, conclude.
La riflessione di Mario Estrada Sanchez è la stessa di Elio Sanfilippo: “È il valore educativo della festa dei morti che non dobbiamo perdere, lo stare insieme, celebrando la vita e ricordando il nostro passato. Che sia sempre da monito”, conclude lo scrittore.