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Racconti brevi da leggere online: “La vita appesa ai muri”

giovedì 10 Gennaio 2019
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Questa puntata dei “Racconti brevi da leggere online”, presenta la seconda parte del primo capitolo del libro “La vita appesa ai muri” di Caterina Guttadauro La Brasca Editoriale Programma Ed., Treviso, 2013.

Dopo la gravidanza inaspettata frutto di una relazione clandestina, rinnegata dal suo amante, Gloria nottetempo fugge di casa. Che fine ha fatto Gloria? Dove si trova? E il suo bambino? … Sono queste le domande alle quali risponde la seconda parte del primo capitolo…

1° capitolo. 2^ parte. Nonno Erasmo.

«Lungo la strada, Margherita rileggeva la lettera di Gloria. Conoscendone la grafia, non c’era possibilità di dubbio.

Gloria non forniva alcuna indicazione per poterla ritrovare, dando per scontato che loro non si sarebbero rifiutate di accudirlo e che avrebbero interceduto con suo padre perché la perdonasse.

Mariannina Coffa
Mariannina Coffa

Margherita avrebbe voluto averla di fronte per ricordarle che era venuta meno a una promessa che si erano fatte un tempo, e che stava gravando la sua coscienza di un fallimento perché, nel giro di un anno, aveva abbandonato suo padre e suo figlio, condannandoli a vivere esattamente quello che aveva vissuto lei: la solitudine della discriminazione, l’essere additata come poco di buono.

Era comodo dire alla fine: «Perdonatemi».

Margherita sapeva che non l’avrebbe perdonata perché pensava che lo stesso coraggio che aveva avuto lasciando suo figlio avrebbe potuto usarlo per crescerlo, per essergli a fianco nei momenti difficili, per raccontargli quelle favole che a lei tanto erano mancate

Ma la vita cambia, come cambia il vento. Erasmo, ignaro di tutto, stava tornando a casa col suo mulo, che era forse il più caro dei suoi amici.

Si conoscevano bene loro due, avevano camminato insieme sotto il sole e la pioggia. Erasmo non usava neanche le redini perché Calogero, come lo chiamava lui, conosceva a memoria la strada e rallentava il passo quando capiva che Erasmo non aveva fretta di arrivare perché non lo aspettava nessuno.

Tra loro si capivano a tal punto che quando Calogero era stanco, il suo padrone scendeva di sella e camminava a piedi accanto a lui per fargli recuperare le forze.

Quella era una sera senza luna, come si diceva dalle mie parti, a rischiarare la strada c’erano solo le stelle e qualche lume acceso nei casolari.

Emma e Margherita aspettavano Erasmo, che arrivò, scaricò Calogero e, come tutte le sere, lo portò nella stalla, dove gli diede la solita razione di paglia e lo lasciò al caldo e libero dai finimenti.

Fuori dalla stalla lo aspettava la signorina Emma che, senza chiederglielo per non metterlo in imbarazzo, lo dirottò in cucina e gli fece mangiare un piatto di pasta ancora calda.

Emma si sorprendeva sempre, anche dopo tanti anni, della dignità di quell’uomo, del senso di rispetto che manifestava in ogni situazione, come se tutto quello che gli si donava fosse un regalo.

In quell’occasione stava mangiando, con una mano usava la forchetta e con l’altra la coppola, lasciando scoperto il capo in segno di rispetto.

Quella sera, pensava Margherita, era la sera dei miracoli ed Erasmo non lo sapeva.

Fini di mangiare la pasta e Emma, mentre gli riempiva il bicchiere di vino, fece un cenno con il capo a sua sorella che capì che era arrivato il momento.

Emma le cedette la parola perché Erasmo sapeva quanto Margherita e Gloria fossero state amiche.

Margherita, con la calma dovuta e con parole semplici, gli raccontò della lettera ricevuta e della speranza di ritrovare sua figlia. Quindi, lesse la lettera perché sapeva che lui non era andato a scuola.

Margherita gli riportò le parole del Parroco, gli descrisse la sorpresa sua e di Emma quando si erano trovate dinanzi al motivo per cui Don Orazio le aveva chiamate.

Emma, sfiorandogli le spalle, lo fece alzare e lo condusse fino all’uscio di una delle stanze da letto, dove dormivano le sorelle Lumia.

Non c’era molto da dire: quello che vedevano non dava adito a fraintendimenti, perciò Emma disse solo: «Questo bimbo si chiama Emanuele ed è tuo nipote, figlio di Gloria».

Erasmo balbettò: «Siete sicure che…». Margherita incalzò: «Si, Erasmo, lo abbiamo fatto battezzare da Don Orazio e gli abbiamo dato questo nome perché era il nome di Gesù e significa: “Dio è con noi”.

Non abbiamo avuto dubbi che sia il figlio di Gloria e tu stesso puoi rendertene conto perché la collanina che ha al collo è la stessa che portava Gloria. Tu la conosci bene l’immagine di quella Madonnina che tu e tua moglie le avevate messa al collo perché fosse protetta».

Le uniche parole che Erasmo riuscì a dire furono: «Ma come può averlo abbandonato. È così piccolo! E lei dove sarà»?

Stavolta a parlare fu Emma, tenendo una mano sulla spalla di Erasmo: «Non dobbiamo farci domande quando sappiamo che non c’è risposta, se Gloria vuole, sa come raggiungerci.

Lei cerchi di stare bene adesso, lo faccia per suo nipote.

Noi faremo tutto quello che compete a una donna e non ci peserà farlo perché siamo in tante e ci riempie di gioia avere un bimbo da accudire. Noi possiamo fare tanto ma non tutto. C’è una famiglia che Emanuele ha e della quale, al momento, lei è il solo componente.

Le insegneremo noi a prendersi cura di lui, a tenerlo in braccio, a dargli il latte, a rimboccargli le coperte, a raccontargli qualche storia.

Erasmo, lei forse non lo sa, ma i bimbi portano dentro per tutta la vita le parole e le immagini dei primi anni.

Non si spaventi, tante cose, amandolo, le verranno spontanee e noi siamo sempre qui, con tutto il bene che le vogliamo»

Erasmo alzò gli occhi a guardare le ‘signorine’ come lui le chiamava e, con la voce rotta dall’emozione, disse: «Ditemi cosa devo fare».

Erasmo era, da sempre, abituato a leggere nel cielo il tempo del giorno dopo, a lavorare sotto il e fino a tarda sera, a volte dimenticandosi di mangiare, cosa ne sapeva lui di pappe, pannolini, ruttini e via dicendo?

Così di giorno le sorelle Lumia accudivano il bambino come tante mamme e la sera Erasmo si fermava nelle loro stanze, prendeva con molta cautela il bambino in braccio per fargli fare il ruttino e poi lo metteva nella culla che muoveva piano piano, fino a farlo addormentare.

Col passare dei mesi, il bimbo cresceva e tutti lo guardavano e gli volevano bene.

Erasmo aveva più sicurezza a tenerlo, lo guardava e, quando gli sorrideva, si rendeva conto che quel bimbo, adesso, era l’unico motivo che lo legava alla vita.

La sera, dopo l’ultima poppata, Emma e Margherita lo aiutavano a cambiare Emanuele per la notte e, dopo averlo addormentato, lo adagiavano nella culla che era stata la loro da piccole e che adesso era accanto al letto di Erasmo.

Il bimbo adesso lo riconosceva, gli sorrideva e gli tendeva le braccine per farsi prendere in braccio.

Ora, la sera, Erasmo rientrava un po’ prima dalla campagna, dove seduto contro un albero, col temperino e un po’ di corteccia, creava piccole figure di animali da portare a Emanuele per farlo giocare.

Raccontava a Margherita che certe notti stava sveglio a guardarlo per ore e gli parlava come sapeva, raccontandole storie vere come fossero favole.

Tante volte si malediceva per non essere andato a scuola, per non aver potuto imparare a leggere e scrivere. Ora sarebbe stato più facile raccontargli le favole scritte e illustrate con i disegni, insomma quelle storie scritte apposta per i bambini.

Emanuele era attento, lo ascoltava, lo guardava con i suoi grandi occhi azzurri ed Erasmo, per la prima volta nella sua vita, si sentiva ascoltato e quando pregava alla sua maniera, al primo posto adesso c’era Emanuele.

La prima volta che Erasmo sentì uscire dalla bocca di suo nipote la parola “papà”, rivolta a lui, andò di corsa a dirlo alle signorine. Era emozionato, finalmente c’era qualcuno che aveva bisogno di lui, che gli voleva bene per quello che era, che la sera lo aspettava e batteva le manine appena lo vedeva.

Ogni tanto, il pensiero di Gloria riaffiorava alla sua mente e gli faceva pensare «Quando Emanuele mi chiederà dov’è la sua mamma, cosa gli risponderò?». Erasmo pensava che non poteva più fare progetti perché non aveva una lunga vita davanti. Bisognava cercare Gloria.

Ne avrebbe parlato con Emma, lei è istruita, può telefonare al Parroco per chiedergli se Gloria era più tornata in quella Chiesa, forse abitava nei dintorni.

Pensava che sua figlia fosse a servizio da qualcuno per mantenersi e che la paura fosse più forte della voglia di tornare.

Lei sapeva che, in un piccolo paese, il privato non esisteva, tutti parlavano di tutto, soprattutto quando si era soli, senza madre e senza fratelli.

Così aveva fatto un pasticcio della sua vita. Aveva ceduto alle bugie di un uomo, aveva lasciato suo figlio in una chiesa perché lei non aveva i mezzi per allevarlo.

Un bimbo non vive di solo amore, aveva scelto di condannare se stessa a vivere nell’anonimato di una città, dove si poteva confondere in mezzo a tanta gente, senza rimetterci il cuore a ogni passo.

Gloria non sapeva che suo padre l’aveva, silenziosamente, perdonata e pensava che se il risultato di quell’errore era Emanuele, per lui non era stato neanche un errore.

Erasmo sapeva con certezza che bisognava cercarla e portarla da suo figlio, perché non voleva che suo nipote vivesse un altro abbandono, prima ancora di capire il senso di quella parola.

Voleva andarsene via da questo mondo senza lasciare situazioni in sospeso, ma riconciliato con quella figlia che, dopo la morte di sua moglie, era stata per lui l’unica ragione di vita.

Era anche disposto a chiederle scusa, ma non capiva di cosa si dovesse scusare, dato che non aveva fatto niente per farla andar via.

Alle signorine Lumia diceva anche di non pagarlo per tutto quello che facevano per suo nipote, a lui i soldi non servivano, le sue necessità erano un pezzo di pane e un bicchiere di vino.

Ormai Emanuele stava crescendo e come tutti i bambini, restituiva affetto a chi glielo dava.

La sera quando Erasmo rientrava dalla campagna, dopo avere scaricato il mulo, metteva in groppa suo nipote e tenendo le redini faceva un giro per le strade vicine. Quella era la giostra di Emanuele.

Il bimbo voleva sempre vedere cosa contenevano le sue bisacce, perché spesso ci si trovavano un fischietto, un pupazzetto, una trottola che il nonno, invece di riposare, costruiva con un temperino e un pezzo di canna.

Gli altri bambini avevano il triciclo, le macchinine, ma a Emanuele non interessava. Il nonno gli aveva insegnato che bisogna essere contenti di quello che abbiamo, per non offendere il buon Dio.

Gli altri bambini andavano con il loro papà al bar, lui preferiva stare con il nonno.

Andavano spesso fuori dal paese, si sedevano su un ponte e il nonno gli raccontava le storie, rispondeva alle sue domande e quando la risposta non c’era, gli aveva insegnato cosa fare. Erasmo e Emanuele scelsero un posto nello spiazzo di terra che avevano di fronte e, quando non avevano la risposta a una domanda, prendevano un sasso e lo appoggiavano là.

Quando si trovava la risposta, toglievano il sassolino, altrimenti continuavano ad aggiungere sassi fino a formare una piccola montagna dalla cui cima si poteva vedere l’arcobaleno, che era il segno che il buon Dio avrebbe risposto a tutte le domande di Emanuele, nell’arco della sua vita.

Quello per il ragazzo diventò un segreto tra lui e il nonno e poiché era un ragazzino e non sapeva tante cose, la montagna cominciò ad alzarsi.

Un giorno, come tanti altri, entrambi erano seduti sul ponte e Emanuele chiese al nonno alcune cose che, da un po’ di tempo, si domandava senza trovare una risposta.

«Nonno i vecchi muoiono prima dei bambini»?

Erasmo rispose: «Sì, perché hanno già vissuto, loro sono già stati bambini, ragazzini, quindi uomini e, infine vecchi, come ora sono io».

«Che cosa significa morire, quando si muore non ci si vede più»? tornò a chiedere Emanuele.

Erasmo rispose: «Gli uomini sono come i fiori, prima sbocciano poi diventano fiori grandi, si appassiscono e muoiono. Però per ogni fiore che muore ne nasce un altro, così la pianta rimane viva. Io morirò ma tu occuperai il mio posto e, dopo di te, i tuoi figli, così la nostra famiglia non finirà mai del tutto».

«Ma quando tu non ci sarai più, come farò io a trovarti»? incalzò Emanuele.

Erasmo rispose: «Ci sono tanti modi per incontrarmi: nei sogni, in tutte le figurine di legno che ti ho regalato.

Anche la sera, guardando il cielo come ti ho insegnato a fare, la stella più luminosa che sembrerà seguirti quando camminerai, sarò io che ti accompagnerò dovunque andrai. Tutto questo potrà accadere se conserverai nel cuore tutte le cose che ti ho raccontato».

«E io perché non ho la mamma come tutti i miei compagni? È morta?», chiese il bimbo.

«No, rispose il nonno, è andata lontano, per guadagnare i soldi che servono per farti crescere. Tu, un giorno, la vedrai sicuramente e, se io non ci sarò, dille che le ho voluto tanto bene e che l’ho perdonata».

Erasmo prese dalla tasca un rudimentale portafoglio e trasse fuori una fotografia sgualcita di Gloria.

Mostrandola al bambino, disse: «Vedi quanto le assomigli? So che ti manca tanto e che non averla qui ti fa sentire diverso.

Non essere arrabbiato con lei se non l’hai vista per tutti questi anni, non sempre nella vita possiamo fare tutto quello che vogliamo, ci sono dei fatti che ci rapiscono, proprio come fa il vento con le foglie ingiallite, prendendole e trasportandole in mulinelli che le allontanano dall’albero.

Qualunque cosa ti succederà, non portare rancore perché è un sentimento che indurisce il cuore, se vuoi qualcosa, combatti per averla, se avrai una famiglia difendila in ogni modo e mettila al primo posto nella tua vita, perché essa è il tuo paese, la tua nazione, il tuo mondo».

Con quelle parole, voleva insegnare a suo nipote a vivere, anche se, a volte, la vita sembra prendersi gioco di noi.

Tutto non è spiegabile, anche per lui, ormai vecchio, la vita per certi aspetti era un mistero.

Lui non aveva mai chiesto, non aveva dimestichezza con le parole e forse per questo i suoi amici veri erano gli alberi e gli animali, il cui linguaggio non era verbale.

Qualche volta portava suo nipote in campagna e nelle soste, mentre gli animali brucavano, Erasmo si sedeva contro un albero e spiegava a Emanuele la diversità delle foglie tra un albero e l’altro.

Un giorno, con il suo temperino, incise la corteccia di un albero per fargli notare il lattice che veniva fuori, la linfa vitale.

E per accompagnare i fatti alle parole, con la punta del temperino, si fece un piccolo taglio sulla mano e Emanuele vide che dalla ferita usciva sangue.

Gli raccomandò di rispettare le piante perché sono di grande utilità all’uomo: gli danno la frutta, lo proteggono con la loro ombra, purificano l’aria che respira, ospitano i nidi degli uccelli.

Erasmo continuò a coltivare in suo nipote l’amore per la natura.

Era l’imbrunire, nonno e nipote avevano dinanzi un quadro che nessun pittore avrebbe saputo dipingere.

Il verde che li circondava era intenso, come il profumo dell’erba e dei fiori. All’orizzonte, un arcobaleno costringeva, con i suoi meravigliosi colori, ad alzare gli occhi al cielo, dove le prime stelle avrebbero, tra non molto, dato il cambio a un sole pallido e addormentato.

Erasmo riprese a parlare: «Sai, un mio compagno di lavoro aveva un cane vecchio quasi come lui che si chiamava Bis.

Quando il suo padrone morì per un infarto, il cane cominciò a rifiutare il cibo e, quando tornavamo la sera dal pascolo, lui era sempre lì ad aspettarlo.

Piano, piano capì che l’attesa era inutile e si lasciò morire. Nessun uomo farebbe mai altrettanto. Gli uomini, non tutti per fortuna, sono schiavi delle loro voglie e delle loro ambizioni, ma se ti daranno il loro rispetto, la loro amicizia e riconosceranno il tuo valore, accontentati. È tutto quello che ti serve per vivere».

Quando Emanuele dormiva in campagna, la sera Erasmo gli insegnava il nome delle stelle e come leggere nel cielo il tempo del giorno dopo.

Gli spiegò quale raggruppamento di stelle forma il Grande carro e il Piccolo carro e, quando Emanuele gli chiese a cosa servissero, si sentì rispondere: «Sono state create dal Buon Dio per illuminare le vie del cielo e della terra, silenziosamente e fedelmente».

Emanuele era un bimbo contento, pensava di avere un nonno speciale, che sapeva un mucchio di cose e che l’amava tanto. Gli aveva anche insegnato la preghiera da recitare la sera, prima di dormire e la mattina, appena sveglio. A Natale, gli aveva regalato un piccolo presepe di legno fatto nei momenti di riposo e completo di tutte le figurine curate minuziosamente.

Le signorine Margherita e Emma gli regalavano, invece, le macchinine perché sapevano che gli piacevano.»

 

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