CAPITOLO 13
Papà ebbe un ictus e la vita lo fermò, ora si sarebbe sempre seduto su una carrozzina.
Lui capiva cosa aspettarsi. C’era un futuro breve e mi faceva sempre delle sorprese che avrebbero dovuto farmi capire che il suo tempo stava per finire. Una mattina, si fece accompagnare da un ragazzo che l’aiutava e mi venne a trovare in ufficio.
L’abbracciai e gli chiesi: «Papà, cosa ci fai qui?»
«Avevo voglia di vederti, mi disse, di rimanere un poco di più con te, di non andarmene…non voglio farti soffrire.»
La sua voce s’incrinò e compresi: mi stava preparando alla sua assenza.
Era arrivato il tempo in cui i figli diventano genitori e viceversa.
La mamma, ogni domenica, sapendo di fargli piacere, tirava la sfoglia e faceva gli stricchetti in brodo, la sua minestra preferita.
Quel pomeriggio uscii con Roberto e, al mio rientro, la vicina di casa mi disse di raggiungere mia madre in ospedale.
La trovai con Marzia, mio fratello era all’estero per lavoro. Quel martedì mio padre ci lasciò, da allora ho sempre odiato gli stricchetti in brodo.
Il mio papà non c’era più, lui che non mi aveva mai raccontato una favola perché me l’aveva fatta vivere.
Una madre ha un rapporto simbiotico con il suo bambino, per nove mesi lo tiene dentro di sé.
Un padre, invece, ha una parola, una carezza, un sorriso, piccole cose per accorciare la distanza fra lui e suo figlio.
Sono stata fortunata, ancora oggi se penso a lui smetto di fare qualsiasi cosa e respiro, vivo, vivo tutta l’emozione che c’è intorno a me.
Talvolta avverto ancora la stretta della sua mano, alzo lo sguardo al cielo per lasciare spazio al vento che mi ricorda le sue carezze.
Quel giorno che mi raggiunse in ufficio, ricordo, avevo la mano in tasca, me la strinse togliendola dalla tasca e se la portò sul cuore.
Un gesto che tradotto era: sei e resterai sempre nel mio cuore.
Quella sera, all’uscita dall’ufficio, indossai la giacca e trovai un biglietto.
Non ricordavo di avere qualcosa in tasca, lo aprii e compresi il perché della stretta di mano, quella mattina.
Mio padre mi mancava; non le sue parole, custodite preziosamente dentro di me ma la sua fisicità.
Come avrei fatto per tutta la vita a non vederlo più? Un altro mistero è la morte. Chi ha fede la ritiene una migrazione dalla terra al cielo ma, per chi non crede, tutto finisce in un arresto di ogni funzione vitale e il ritorno alla cenere. È difficile accettarlo senza prove né riferimenti ma forse è d’aiuto a chi rimane per potere andare avanti e continuare a vivere.
L’unica consolazione era che quando pensavo a lui, le mie labbra si schiudevano in un sorriso, un sorriso accennato che potevo associare ai mille ricordi che mi aveva lasciato.
Una sera mi stavo lavando, aspettavo Roberto per uscire.
Feci la doccia e, al buio, percorsi i pochi metri che separavano il bagno dalla mia camera.
Stavo entrando quando mi bloccai impietrita. Nella mia camera c’era una toilette, comprata dai miei genitori quando ero ragazzina.
Ero già vanitosa e volli in regalo uno specchio mio in camera con la sua poltroncina, dove mi sedevo per spazzolarmi i capelli.
Nella penombra vidi uno scintillio azzurro avvolgere la scatola dove erano tutti i miei pettini.
Quella scia era di colore bianco/azzurro, prese nel suo vortice qualcosa che lasciò cadere sul ripiano della toilette.
Non ero ubriaca, solo triste, ma la tristezza non materializza gli oggetti.
Mi asciugai, indossai il mio tubino nero, un colore perfettamente intonato a quel momento e presi il pettine per pettinarmi.
Feci un gesto per me automatico ma sentii all’interno della mano un grande calore: il pettine si muoveva ma non guidato dalla mia mano.
Accesi la luce e sbiancai quando vidi che l’oggetto in questione era il pettine azzurro di papà, con cui si era pettinato qualche giorno prima di morire.
Gli avevo chiesto: «Ti piace proprio questo pettine eh!»
«Si, mi rispose, e sai perché l’ho comprato azzurro?»
Mi ricordò una favola raccontatami da bambino. Un contadino era andato al mercato a vendere i suoi prodotti e guadagnare qualche soldino per poter assicurare il cibo alla sua famiglia.
Aveva una figlia che non poteva camminare ed era sempre triste quando, seduta, guardava i bimbi giocare in strada.
Il contadino, dopo aver venduto i suoi prodotti, sulla via del ritorno, passò davanti ad una bancarella che vendeva tanti pettini, di ogni forma e colore.
Ebbe un pensiero: privarsi dei soldi non era la cosa giusta da fare, ma preferiva non mangiare e vedere felice sua figlia. Comprò il pettine e ritornò a casa come avesse in mano un tesoro; dopo essere entrato, si avvicinò alla bimba e le disse:
«Guarda, questo pettine, ha il colore dei tuoi occhi, è magico.»
Parlando, prese un foglio di carta, avvolse il pettine in un certo modo, lo avvicinò alla bocca e, dosando il fiato, emise dei suoni melodiosi.
«Tutte le volte, quando ti sentirai sola, usalo e vedrai che tante stelle verranno a farti compagnia.»
E così fu: quando i bambini dalla strada sentivano il suono magico, correvano alla finestra e rimanevano ad ascoltare il suono facendo compagnia alla bimba.
Ecco, c’era una spiegazione a quanto avevo appena visto: quel pettine tutte le volte che lo avrei usato mi avrebbe fatto sentire la presenza di mio padre.
Questo fu solo il primo dei tanti segni che mi avrebbero dimostrato come ci sono amori così grandi da sconfiggere anche la morte.
Di una cosa sono stata sempre grata al destino: papà aveva fatto in tempo a conoscere Roberto, e insieme lo portavamo spesso fuori con la carrozzina.
Caterina Guttadauro La Brasca
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Andrea Giostra
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